23 December 2009

HABLA EL MAESTRO UMBERTO ROMAGNOLI





Per il sindacato è una questione d’identità


Nell’Occidente capitalistico coinvolto nel processo di industrializzazione, il sindacato si è fatto carico del compito di emancipare il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose. Come poteva, il sindacato ha fatto quel che doveva, contribuendo a traghettarli dallo status di sudditi di uno Stato oligarchico e monoclasse allo status di cittadini di uno Stato democratico pluriclasse.


Tuttavia, pur avendo un passato di cui vantarsi, il sindacato non sembra avere un futuro di cui fidarsi. Il secolo da cui è uscito lo ha consegnato al nuovo in condizioni paragonabili a quelle di una icona logorata dal tempo. Per questo, il destino cui più frequentemente vanno incontro i partecipanti ad un pubblico dibattito sul ruolo del sindacato nelle società contemporanee è quello di lasciarsi con la sensazione di avere celebrato i funerali d’un caro estinto per cui non resta altro da fare che elaborare il lutto.


Una conclusione del genere è più emotiva che ragionata. Intanto, il cauto e quasi svogliato ritmo dei cambiamenti in atto nel sindacato dipende non tanto o non solo da pigrizia, ambiguità, paura delle novità, egoismo, predilezione per le micro-discontinuità – che peraltro sono una componente della cultura non dei soli rappresentanti sindacali – quanto piuttosto da una realtà contraddittoria. Una realtà dove il Novecento che crediamo di avere alle spalle interi continenti, od anche intere regioni di un medesimo paese, ce l’hanno invece davanti. Una realtà dai contorni sfuggenti dove il nuovo avanza tanto in fretta da non concedere neanche il tempo dell’adattamento. Una realtà dove, come scrive Aris Accornero, i sindacati “soffrono perché una parte crescente di lavoratori ha un po’ meno bisogno di loro, mentre un’altra parte ne ha molto più bisogno ma non riesce ad incontrarli” e, quando succede, scopre che tra i dirigente sindacali non c’è concordia di opinioni su come interpretare il bisogno di sindacato che manifestano.


In simili condizioni, la riflessione non può spingersi oltre la pacata affermazione che, oggi, il sindacato non è più quello di ieri, anche se la cosa gli dispiace moltissimo, e cionondimeno non è ancora quello di domani, anche perché l’immagine che in qualche modo si prefigura non lo persuade. La frettolosa conclusione di cui dicevo è sbagliata sul piano del metodo, perché è condizionata dalle suggestioni di un determinismo volgare e banale: la storicità della forma-sindacato più conosciuta nell’Occidente non la condanna di per sé all’esaurimento; piuttosto, apre interrogativi su come riformarla per adeguarla ai mutamenti sopravvenuti e rimotivarla.


Sospetta perciò è anche la prontezza con cui i più reazionari o (il che può essere lo stesso) i più infatuati della post-modernità sono disposti a predire la morte del sindacato. Padronissimi di seguitare a pensare del sindicato tutto ciò che di lui hanno sempre pensato, devono però rassegnarsi all’idea che il sindacalismo è come il comunismo nel pensiero del Papa polacco: un male necessario per reagire alle ingiustizie del capitalismo. Un male che non è estirpabile con facilità non solo perché l’economia di mercato è quella che è, ma anche perché, nel frattempo, il sindacato si è guadagnata un’ampia legittimazione sociale che ha ricevuto il crisma della legalità costituzionale e, almeno da noi, il trattamento premiante di una legislazione promozionale come lo Statuto dei lavoratori, ossia il più avanzato documento legislativo pro labour che un Parlamento occidentale abbia mai confezionato.


Adesso, però, questa sperimentata attitudine ha perduto smalto nella misura in cui la percezione dell’esigenza – che percorre le società più evolute – di ridisegnare nel sistema giuridico l’immagine dell’individuo con le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere, anche se protectivo e benevolo, è penetrata sì nell’organizzazione sindacale, ma furtivamente e dunque senza esercitare una significativa influenza sulla concezione che il sindacato ha memorizzato del suo ruolo di rappresentanza: una concezione granitica a sostegno di un ruolo blindato a tutela di collettività indistinte.


Il fatto è che, come osservava Massimo D’Antona, “contrariamente ad un diffuso luogo comune, i diritti di democrazia sindacale non sono riconosciuti ai lavoratori come rappresentati”. Lo stesso Statuto dei lavoratori “si preoccupa delle garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell’impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentanti di fronte al lavoratore”. I quali, infatti, preferiscono considerarlo nella sua qualità di “destinatario finale di decisioni vincolanti, assunte in suo nome e per suo conto”.


La denuncia è caduta nel vuoto. Ma la lacuna normativa, che Massimo chiamava “il non-detto” dello Statuto, non è resa più tollerabile dall’abitudine in bilico tra ideologia e apologia di dedurre dall’energia con cui il sindicato sa difendere la democrazia nel paese la certezza che, come gruppo organizzato, non può non averne interiorizzato i principi ordinanti. Adesso, questo pregiudizio favorevole si è rovesciato nel suo contrario. Paradigmatico, ancorché sottostimato o frainteso, è al riguardo un episodio accaduto in Italia sul finire del secolo scorso, quando un referendum
abrogò una norma dello Statuto nella parte in cui obbligava l’imprenditore ad agevolare la riscossione delle quote associative mediante ritenuta salariale su richiesta del dipendente iscritto al sindacato.


Vero è che l’11 giugno 1995 il legislatore popolare optò per l’abrogazione perché si era sparsa la menzogna che le trattenute sarebbero state viziate dal più arbitrario degli automatismi in quanto effettuate ope legis e dunque a prescindere dalla volontà degli interessati. Resta il fatto che, se la grossolana falsità trovò ascolto e persuase la maggioranza dell’elettorato, ciò significa che si volle punire un potere che, nell’immaginario collettivo, minacciava di trasformarsi in una tirannia e come tale era vissuto. Insomma, il legislatore popolare si pronunciò nel senso che la venerabile concezione di un sindacato la cui agiografia lo descrive incapace di peccare era tramontata.


Per questo, revocò il beneficio dell’auto-finanziamento sindacale agevolato dalla legge: svanito il pathos delle origini, il sindacato appariva come uno qualunque dei tanti gruppi intermedi di natura volontaristico-associativa rispetto ai quali lo Stato è indifferente. Eppure, il ministro socialista Giacomo Brodolini aveva preannunciato: “il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando si propone di fare del luogo di lavoro la sede Della partecipazione democratica della vita associativa sindacale e della formazione di canali democratici tra il sindacato e la base”. Viceversa, l’esito referendario autorizza a pensare che allo Statuto il miracolo non era riuscito. Né la deriva si era fermata dopo una sentenza della Corte costituzionale che, nel 1990, aveva censurato i sindacati arricchiti dalla pingue dote statutaria fatta di privilegi ed immunità che, per non rischiare di perderla preferivano l’insostenibile leggerezza di una rappresentatività soltanto presunta e perciò aveva esortato il legislatore ad imporre che essa fosse accertata in base a regole “ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacati”.


Tuttavia, anche un legislatore meno impacciato o distratto del nostro rischierebbe di fare la figura dell’allegrone colpito da ilare amnesia se pretendesse di prescrivere al sindacato istituzionalizzato del tempo presente di tornare ad essere un’associazione genuina e virtuosa. Oramai, l’esercizio di consistenti fette di potere sostanzialmente e, spesso, anche formalmente pubblico lo ha irreversibilmente trasformato in un’associazione inautentica e virtuale oscillante tra privato e pubblico, ma più sbilanciata verso il pubblico che verso il privato. Con ciò non intendo insinuare che il suo patrimonio genetico abbia subito chissà quali alterazioni. Al contrario, fin dagli inizi il sindacato manifestò, non solo in Italia, la tendenza a giustapporre alla logica volontaristico- associativa la logica istituzionale; e ciò proprio per sostenere un’ambizione sproporzionata ai mezzi di cui disponeva. L’ambizione era quella di proporsi come titolare di un interesse collettivo il cui soddisfacimento esigeva regole uniformi in aree (geografiche, merceologiche, professionali) di variabile estensione e in ogni caso eccedenti la cerchia degli associati. Dell’istanza, che preesisteva al fascismo, il fascismo si appropriò a modo suo e – per impedire che il crollo del regime la mortificasse – intere generazioni di operatori giuridici ne hanno fatte di tutti i colori. Perché buttare via l’acqua sporca col bambino dentro?


La medesima riluttanza è ancora vivissima all’epoca della Costituente. Infatti, l’inattuato quarto comma dell’art. 39 del testo costituzionale reproduce un’immagine di sindacato che sembra estratta dall’album di famiglia. Come ha scritto Vittorio Foa, essa contiene l’identikit di un “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato e, nello stesso tempo, soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato”. Cosa significa? Significa che i padri costituenti volevano la luna? No, più semplicemente significa che la transizione dalla rappresentanza sindacale di tipo politico-istituzionale e dunque di diritto pubblico – acquistata a prezzi proibitivi in età corporativa – alla rappresentanza di tipo privatistico-associativo ossia particolaristica e dunque di diritto comune – privilegiata nell’età successiva – sarebbe rimasta incompiuta. Anche lo Statuto dei lavoratori ne sancirà l’incompiutezza nell’ampia misura in cui scolorisce il principio associativo di matrice privatistica che presiede ai rapporti tra sindacato ed iscritti. In seguito alla crescente opacità di tale principio – su cui Mario Rusciano fu tra i primi a richiamare criticamente l’attenzione dei giuristi del lavoro – la rappresentanza sindacale si è definitivamente congedata dal modello della rappresentanza volontaria di cui discorrono i manuali di diritto privato, diventando una sottospecie della rappresentanza politica di cui discorrono i manuali di diritto costituzionale.


Per questo, bisogna smettere di denunciare con toni scandalistici l’avvenuta metabolizzazione dell’ibridismo. È senz’altro più corretto parlarne senza falsi pudori come di una contraddizione irrisolta che procura risorse. Infatti, i sessant’anni trascorsi dall’art. 39 Cost. aspettando Godot dovrebbero essere archiviati con una formula ossimorica. È stata infatti una necessità storica che il sindacato rifiutasse una legge organica capace di definirne modo d’essere e ambiti di azione, perché il nostro era un movimento sindacale con enormi ritardi da recuperare quanto ad esperienza di libertà e autonomia e perciò, sprovvisto com’era degli anticorpi necessari per impedire allo Stato di colonizzarlo, meritava la chance di farsi le ossa senza intempestive interferenze. Nondimeno, si trattava di una inutile necessità.


Infatti, la bipolarità del sindacato ha trovato spazio e sviluppo nella costituzione materiale malgrado l’inattuazione del progetto di ordinamento sindacale disegnato dai padri costituenti. Il che vuol dire che la bipolarità preesisteva: il sindacato se la portava dentro e l’ha custodita tra le pieghe di un’esperienza ostentatamente privatistica. Ciò non toglie che, di fronte alla colossale crescita della componente istituzionale del sindacato dietro gli immutati scenari normativi dei gruppi d’interesse privati che rispondono soltanto ai loro membri, è un’esagerazione seguitare a qualificare come manifestazione della libertà sindacale costituzionalmente protetta l’allergia del sindacato a regole che rendano compatibile coi fondamenti delle democrazie rappresentative la più explosiva delle sue performance: quella che gli permette di sommare ai vantaggi di cui gode come “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato” i vantaggi di cui si appropria come “soggetto di una funzione pubblica”.


Anzi, il processo di rilegittimazione di un soggetto storico che dà segni di affaticamento comincia proprio da qui, da questa presa d’atto. Come dire: visto che il tempo è stato galantuomo, è arrivato il momento di rendergli giustizia stabilendo “le regole sulla legittimazione della rappresentanza, sulle garanzie dei rappresentati e sul pluralismo che lo Statuto ritenne di non dover scrivere”, mentre – come intuiva Massimo D’Antona – esse sono indispensabili per ridefinire la frontiera del diritto sindacale possibile nel secolo in cui siamo entrati. Dopotutto, il modo d’essere e d’agire del sindicato interessa allo Stato almeno quanto il modo d’essere e d’agire dello Stato interessa al sindacato e soltanto il suo ripensamento permette alle collettività rappresentate di trovare nel sindacato un interlocutore al passo coi tempi.



En:
http://www.lex.unict.it/eurolabor/news/dlm/1-2009/editoriale.pdf



10 December 2009

LA SENTENCIA DE STRASBOURG SOBRE LA PENSIÓN Y EL MATRIMONIO GITANO

STRASBOURG
8 décembre 2009
Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l'article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.


En l'affaire Muñoz Díaz c. Espagne,
La Cour européenne des droits de l'homme (troisième section), siégeant en une chambre composée de :
Josep Casadevall, président,
Elisabet Fura,
Corneliu Bîrsan,
Boštjan M. Zupančič,
Alvina Gyulumyan,
Egbert Myjer,
Luis López Guerra, juges,
et de Santiago Quesada, greffier de section,
Après en avoir délibéré en chambre du conseil les 26 mai 2009 et 17 novembre 2009,
Rend l'arrêt que voici, adopté à cette dernière date :
PROCÉDURE
1. A l'origine de l'affaire se trouve une requête (no 49151/07) dirigée contre le Royaume d'Espagne et dont une ressortissante de cet État, Mme María Luisa Muñoz Díaz (« la requérante »), a saisi la Cour le 29 octobre 2007 en vertu de l'article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des libertés fondamentales (« la Convention »).
2. La requérante est représentée par Me M. Queipo de Llano López-Cózar, avocate à Madrid. Le gouvernement espagnol (« le Gouvernement ») est représenté par son agent, I. Blasco Lozano, chef du service juridique des droits de l'homme au ministère de la Justice.
3. La requérante, rom de nationalité espagnole, se plaignait du refus de lui verser une pension de réversion à la suite du décès de M.D., lui aussi rom de nationalité espagnole, au seul motif qu'ils ne formaient pas, aux yeux de la législation espagnole, un couple marié. Elle alléguait la violation de l'article 14 de la Convention en combinaison avec les articles 1 du Protocole no 1 et 12 de la Convention.
4. Le 13 mai 2008, la Cour a décidé de communiquer la requête au Gouvernement. Comme le permet l'article 29 § 3 de la Convention, il a en outre été décidé que la chambre se prononcerait en même temps sur la recevabilité et le fond de l'affaire.
5. Les parties ont présenté leurs observations. Des observations ont également été reçues de l'Union Romaní que le président avait autorisée à intervenir dans la procédure écrite en qualité d'amicus curiae (article 36 § 2 de la Convention et 44 § 2 du règlement de la Cour).
6. Une audience s'est déroulée en public au Palais des droits de l'Homme, à Strasbourg, le 26 mai 2009 (article 59 § 3 du règlement).
Ont comparu :
– pour le Gouvernement
M. Ignacio Blasco Lozano, chef du service des droits de l'homme au ministère de la Justice, agent,
– pour la requérante
Me Magdalena Queipo de Llano López-Cózar, conseil,
Me Sebastián Sánchez Lorente, conseil.
– pour la tierce partie
M. Juan de Dios Ramírez Heredia, président de l'Unión Romaní.
La Cour a entendu M. Blasco, Me Queipo de Llano et Me Sánchez en leurs déclarations ainsi qu'en leurs réponses aux questions posées par les juges L. López Guerra et E. Myjer. Elle a aussi entendu M. Ramírez Heredia et Mme Muñoz Díaz, la requérante.
EN FAIT
I. LES CIRCONSTANCES DE L'ESPÈCE
7. La requérante est née en 1956 et réside à Madrid.
8. La requérante et M. D., appartenant tous deux à la communauté rom, se marièrent en novembre 1971 selon les rites propres à leur communauté. Le mariage fut célébré conformément aux coutumes et traditions culturelles roms, et reconnu par leur communauté. Pour la communauté rom, le mariage célébré selon ses coutumes entraîne les effets sociaux découlant du mariage, la reconnaissance publique, l'obligation de vie commune et l'ensemble des autres devoirs et droits qui découlent d'une telle institution.
9. La requérante eut six enfants, qui furent inscrits dans le livret de famille délivré au couple par l'administration espagnole (Registro civil) le 11 août 1983.
10. Le 14 octobre 1986, la requérante et sa famille se virent reconnaître la situation de famille nombreuse de première catégorie, sous le no 28/2220/8, en application de la loi 25/1971 du 19 juin 1971 sur la protection des familles nombreuses.
11. Le 24 décembre 2000, l'époux de la requérante décéda. Maçon de profession, au moment de son décès, il travaillait et avait cotisé à la sécurité sociale pendant dix-neuf ans, trois mois et huit jours et avait, à sa charge, son épouse (en tant que telle) et ses six enfants. Il était titulaire d'une carte de bénéficiaire de la Sécurité Sociale, tamponnée par l'agence no 7 de Madrid de l'Institut national de la Sécurité Sociale.
12. La requérante demanda à bénéficier d'une pension de réversion. Par une décision du 27 mars 2001, l'Institut national de la sécurité sociale (INSS) la lui refusa, « dans la mesure où [la requérante] n'est pas et n'a jamais été l'épouse de la personne décédée avant la date de son décès, comme l'exige le paragraphe 2 de la septième disposition additionnelle de la loi 30/1981, du 7 juillet 1981 (en vigueur au moment des faits), combiné avec l'article 174 de la loi générale sur la sécurité sociale (LGSS), approuvée par le décret royal législatif 1/1994 du 20 juin 1994 ».
13. Cette décision fut confirmée par une décision du 10 mai 2001 du même Institut.
14. La requérante saisit alors la juridiction du travail. Par un jugement du 30 mai 2002 du juge du travail no 12 de Madrid, elle se vit accorder le droit de percevoir une pension de réversion avec une base de 903,29 euros par mois, des effets civils étant ainsi reconnus à son mariage rom. La partie pertinente du jugement était libellée comme suit :
« (...) Dans notre pays, la minorité rom (etnia gitana) est implantée depuis des temps immémoriaux et il est connu que cette minorité célèbre le mariage selon des rites et traditions qui ont force de loi entre les parties. Ces mariages ne sont pas considérés comme contraires à la morale ni à l'ordre public et sont reconnus socialement.
(...) L'article 61 du code civil énonce que le mariage a des effets civils dès sa célébration mais que l'inscription au Registre civil est nécessaire pour que ces effets soient reconnus. A cet égard, le mariage rom n'est pas inscrit au Registre civil, car il n'a pas été considéré par l'État comme une composante de la culture ethnique qui est présente dans notre pays depuis des siècles.
(...) L'argument qui est opposé à la requérante pour refuser de lui verser la pension de réversion est exclusivement la non-reconnaissance des effets civils de son mariage avec l'ayant droit (actif de nationalité espagnole, assujetti aux droits et obligations régis par le droit interne et communautaire), nonobstant le fait que l'Espagne a ratifié la Convention internationale de l'ONU du 7 mars 1966 sur l'élimination de toutes les formes de discrimination raciale.
(...) L'absence de réglementation de la reconnaissance des effets civils du mariage rom ne saurait empêcher l'action protectrice que l'État s'est imposée en définissant les normes de sécurité sociale.
(...) La directive 2000/43/CE relative à la mise en œuvre du principe de l'égalité de traitement entre les personnes sans distinction de race ou d'origine ethnique est applicable au cas d'espèce, où la prestation refusée trouve son origine dans la relation de travail de l'ayant droit, décédé d'une cause naturelle lorsqu'il était en activité. (...) L'article 4 § 1 du Code civil énonce [qu'] « il est procédé à une application par analogie des normes lorsque celles-ci n'envisagent pas le cas d'espèce mais en visent un autre, analogue, avec lequel une similitude d'objet peut être perçue». Ladite application par analogie est applicable au cas d'espèce.
(...)
Le mariage de la requérante n'est pas inscrit au Registre civil, encore que cela ne soit pas expressément exclu. Ne lui sont reconnus ni les effets civils, ni la jouissance de la protection sociale du survivant en cas de décès d'un des deux conjoints. Le mariage rom est ignoré par la législation espagnole, malgré l'enracinement socioculturel que ladite ethnie a dans notre pays. Cependant, comme il a été dit précédemment, le mariage conforme à des rites et coutumes religieux qui étaient encore récemment étrangers à notre société dispose [bien] d'un cadre légal. Ce sont donc des cas analogues, exception faite qu'il ne s'agit pas d'une religion. Ils ont une similitude d'objet (communauté de cultures et coutumes qui sont présents au sein de l'État espagnol). Le refus de l'INSS d'octroyer à la requérante une pension de réversion, avec comme seul obstacle le fait que le mariage contracté par l'ayant-droit et sa veuve ne soit pas reconnu, révèle un traitement discriminatoire à raison de l'appartenance ethnique, contraire à l'article 14 de la Constitution espagnole et à la directive 2000/43/CE. »
15. L'INSS fit appel. Par un arrêt du 7 novembre 2002, le tribunal supérieur de justice de Madrid infirma le jugement attaqué. La décision était motivée comme suit :
« (...) Il convient de signaler que le principe d'égalité et de non-discrimination repose sur l'idée que des situations égales doivent faire l'objet d'un traitement égal et sur [l'idée] qu'un traitement égal appliqué à des situations qui ne sont pas égales constitue une injustice. Cela suppose également qu'il ne faut pas s'écarter de la loi applicable à tous d'une manière [qui permettrait de] faire davantage d'exceptions que celles prévues expressément dans ladite loi.
(...) Il faut distinguer ce qui relève de la législation en vigueur et applicable à tout moment de ce qui peut s'entendre comme souhaitable par un secteur de la société.
(...) En conformité avec ce qui est prévu par l'article 49 du code civil, chaque Espagnol (comme la requérante et l'ayant droit) peut choisir soit un mariage civil devant le juge, le maire ou un fonctionnaire public désigné [par le même code], soit un mariage religieux prévu par la loi.
(...) Conformément à tout cela, si le mariage civil doit se célébrer à travers des formes règlementées, le mariage religieux doit l'être également, sous des formes prévues par une confession religieuse – ces formes étant posées par l'État, ou, à défaut, admises par la législation de ce dernier. [C'est dans ces circonstances] que le mariage produit des effets civils.
(...) Le mariage célébré uniquement et exclusivement selon les rites roms n'entre dans aucun des cas énoncés, car même s'il s'agit d'une ethnie, les normes ou formes de cette dernière ne produisent pas d'effet juridique au-delà de son cadre, et ne sont pas consacrées par la loi qui prévoit la pension litigieuse. [Ce mariage], qui a certes un sens et bénéficie d'une reconnaissance sociale dans le milieu concerné, n'exclut pas et ne remplace pas actuellement la loi en vigueur et applicable à l'espèce, tant qu'il s'agit d'un mariage entre Espagnols célébré en Espagne. Une ethnie, d'autre part, ne constitue pas autre chose qu'un groupe qui se différencie pour un motif fondé sur la race (...) et un rite n'est pas autre chose qu'une coutume ou cérémonie.
(...) S'agissant donc d'une coutume, celle-ci, selon l'article 1 § 3 du Code civil, n'intervient qu'à défaut de loi applicable. (...) Ne sont pas remis en question la moralité ou la conformité de ce rite à l'ordre public, mais uniquement sa capacité d'engendrer des obligations erga omnes, alors qu'il existe en Espagne des normes légales régissant le mariage. La réponse, évidemment, se doit d'être négative.
(...)
Le mariage, pour produire des effets civils, ne peut être que celui célébré civilement ou religieusement d'après les termes exprimés précédemment. Le mariage rom ne correspond pas, dans l'actuelle configuration de notre droit, à la nature des mariages précités. L'article 174 de la LGSS exige la qualité de conjoint du défunt pour avoir le bénéfice de la pension de réversion, et la notion de conjoint est interprétée strictement selon une jurisprudence constitutionnelle et ordinaire constante (malgré des voix dissidentes), conformément à laquelle sont exclus de cette prestation les concubins de fait ainsi que beaucoup d'autres qui, en définitive, ne sont pas mariés en conformité avec la loi applicable. »
16. La requérante saisit alors le Tribunal constitutionnel d'un recours d'amparo en invoquant le principe de non-discrimination fondée sur la race et la condition sociale. Par un arrêt du 16 avril 2007, le Tribunal constitutionnel rejeta le recours, en s'exprimant dans les termes suivants :
(...) Le Tribunal, siégeant en formation plénière, a réitéré (...) les raisons permettant de conclure que limiter la pension de réversion aux cas de cohabitation institutionnalisée en tant que mari et femme, en excluant d'autres formes d'unions ou cohabitations, ne constitue pas une discrimination pour des raisons sociales. A cet égard, il a été soutenu que le législateur dispose d'une importante marge de manœuvre pour déterminer la configuration du système de sécurité sociale ainsi que pour apprécier les circonstances socioéconomiques s'agissant d'administrer des ressources limitées pour répondre à un grand nombre de besoins sociaux, compte tenu du fait que le droit à la pension de réversion n'est pas strictement conditionné, dans un régime contributif, à une situation réelle de nécessité ou de dépendance économique, ou encore d'une incapacité de travail pour le conjoint survivant. En tout état de cause, la Chambre plénière du Tribunal s'est aussi exprimée sur le fait que l'extension, par le législateur, de la pension de réversion à d'autres unions différentes, n'est pas non plus prohibée par l'article 14 de la Constitution espagnole.
(...)
Une discrimination supposée pour des considérations sociales est à écarter pour les raisons précitées. (...) Aucune violation de l'article 14 ne peut découler du fait de limiter concrètement la pension de réversion au lien matrimonial.
De la même manière, il n'y a pas de traitement discriminatoire direct ou indirect, pour des raisons raciales ou ethniques, découlant du fait que l'union de la requérante, conforme aux rites et coutumes roms, n'ait pas été assimilée au lien matrimonial à l'égard des effets de ladite pension, et que le même régime juridique que celui des unions « more uxorio » lui ait été appliqué.
D'une part, (...) le Tribunal a réitéré que « la discrimination par indifférenciation » ne ressort pas de l'article 14 de la Constitution espagnole, car le principe d'égalité ne consacre pas un droit à un traitement [différencié], ni ne vient protéger le manque de distinction entre des cas différents. Il n'existe donc pas un droit subjectif à un traitement normatif différencié. (...)
D'autre part, l'exigence légale d'un lien matrimonial comme condition de jouissance de la pension de réversion et l'interprétation ressortant de la décision attaquée, qui tient compte du lien matrimonial issu des formes légalement reconnues d'accès au mariage et non d'autres formes de cohabitation, notamment les unions selon les usages et coutumes roms – cette exigence n'étant en aucun cas liée à des considérations raciales ou ethniques, mais au fait [pour les intéressés] d'avoir pris librement la décision de ne pas formaliser le mariage par les voies légales, civiles ou confessionnelles reconnues – ne prend jamais en considération l'appartenance à une race ni les coutumes d'une ethnie déterminée au détriment des autres. En conséquence, il n'y a là aucune forme de discrimination dissimulée à l'égard de l'ethnie rom. (...)
Il faut enfin rejeter l'idée que la reconnaissance d'effets civils au lien matrimonial émanant de certains rites religieux déterminés, mais non à ceux célébrés en vertu des rites et coutumes roms, et le refus de l'organe juridictionnel de procéder à une application par analogie [...], entraînent, directement ou indirectement, la discrimination ethnique alléguée. (...)
Pour résumer, compte tenu du fait que la loi établit une possibilité générale, neutre d'un point de vue racial et ethnique, d'accéder à une forme civile du mariage, et que le législateur, lorsqu'il a décidé d'attacher des effets légaux à d'autres formes d'accession au lien matrimonial, l'a fait sur la base exclusive de considérations religieuses et par conséquent sans invoquer aucune raison ethnique, aucun traitement discriminatoire à connotation ethnique tel qu'allégué ne peut être constaté. »
17. Une opinion dissidente était jointe à l'arrêt. Elle se référait à l'arrêt 199/2004, dans lequel le Tribunal constitutionnel avait conclu à la violation du droit à l'égalité s'agissant du veuf d'une fonctionnaire, après avoir constaté l'existence d'une relation conjugale mais non d'un mariage, dans la mesure où il n'y avait pas d'inscription au registre civil, les contractants ayant en effet refusé expressément l'inscription audit registre de leur relation conjugale qui avait été célébrée sous une forme religieuse.
18. Pour le magistrat dissident, ce cas du conjoint survivant d'un mariage religieux non inscrit était comparable à celui de la requérante, en ce que les deux demandeurs revendiquaient une pension de réversion sur le fondement de ce qu'ils estimaient être un lien matrimonial, malgré l'absence d'inscription de ce lien au registre civil.
19. D'autre part, le magistrat dissident rappela que, bien que l'Espagne fût partie à la Convention-cadre pour la protection des minorités nationales, signée à Strasbourg le 1er février 1995, la jurisprudence du Tribunal constitutionnel ne prenait pas en compte les rites, pratiques et coutumes d'une ethnie ou groupe concrets, ou encore ne considérait pas comme valables ou susceptibles de protection constitutionnelle les actes de personnes appartenant à des minorités qui réclamaient le respect de leurs traditions culturelles.
20. Selon le magistrat dissident, la situation exposée par ce recours d'amparo démontrait, pour la première fois, que la protection des minorités avait une portée constitutionnelle beaucoup plus étendue que la simple réponse reçue par la requérante. La requérante n'aurait pas dû être contrainte de saisir les instances supranationales afin d'obtenir la protection réclamée. Dans les cas de protection des minorités ethniques, la garantie de l'égalité exigeait des mesures de discrimination positive en faveur de la minorité défavorisée et que soit respectée, avec la sensibilité adéquate, la valeur subjective qu'une personne appartenant à ladite minorité attache et exige quant au respect de ses traditions et à l'héritage de son identité culturelle. Le magistrat dissident conclut ainsi :
« Il est disproportionné que l'État espagnol, qui a pris en considération la requérante et sa famille rom en leur attribuant un livret de famille, en leur reconnaissant la qualité de famille nombreuse, en leur accordant à elle et ses six enfants une assistance en matière de santé et qui a perçu les cotisations correspondantes de son mari rom pendant dix-neuf ans, trois mois et huit jours, ne veuille pas aujourd'hui reconnaître le mariage rom en matière de pension de réversion. »
21. Le 3 décembre 2008, en application de la troisième disposition additionnelle de la loi 40/2007 du 4 décembre 2007 relative à certaines mesures de sécurité sociale, la requérante se vit octroyer une pension de réversion à compter du 1er janvier 2007, en tant que compagne de M.D.
II. LE DROIT INTERNE ET EUROPÉEN PERTINENT
22. Les dispositions constitutionnelles applicables sont les suivantes.
Article 14.
« Les Espagnols sont égaux devant la loi ; ils ne peuvent faire l'objet d'aucune discrimination fondée sur la naissance, la race, le sexe, la religion, les opinions ou sur n'importe quelle autre condition ou circonstance personnelle ou sociale ».
Article 16
« 1. La liberté idéologique, religieuse et de culte des individus et des communautés est garantie sans autres restrictions, quant à ses manifestations, que celles qui sont nécessaires au maintien de l'ordre public protégé par la loi.
2. Nul ne pourra être obligé de déclarer son idéologie, sa religion ou ses croyances.
(...) »
Article 32 § 2
« 1. L'homme et la femme ont le droit de contracter mariage en pleine égalité juridique.
2. La loi déterminera les formes du mariage, l'âge et la capacité requis pour le contracter, les droits et les devoirs des conjoints, les causes de séparation et de dissolution et leurs effets.
23. Les dispositions pertinentes du code civil, dans sa version en vigueur en 1971, se lisent ainsi.
Article 42
« La loi reconnait deux types de mariage : le mariage canonique et le mariage civil.
Le mariage doit être contracté canoniquement lorsqu'au moins un des contractants se réclame de la religion catholique.
Le mariage civil est autorisé lorsqu'il est prouvé qu'aucun des contractants ne se réclame de la religion catholique ».
24. Les dispositions applicables en l'espèce du règlement du Registre civil tel qu'en vigueur au moment des faits (décret 1138/1969, du 22 mai 1969), sont ainsi libellées.
Article 245
« Les personnes ayant renoncé à la religion catholique doivent, dans les plus brefs délais, présenter la preuve que ladite renonciation a été communiquée par l'intéressé au curé de son domicile (...) ».
Article 246
« (...)
2. Dans les cas non prévus par la disposition précédente, la preuve de non- appartenance à la religion catholique peut être apportée soit par une attestation certifiant l'appartenance à une autre confession religieuse, délivrée par le ministre compétent ou le représentant autorisé de l'association confessionnelle en cause, soit par une déclaration expresse de l'intéressé devant le fonctionnaire du Registre ».
25. Les dispositions pertinentes du code civil, dans sa version actuellement en vigueur, sont les suivantes.
Article 44
« L'homme et la femme ont le droit de se marier conformément aux dispositions du présent code ».
Article 49
« Tout ressortissant espagnol peut se marier en Espagne ou à l'étranger :
1. Devant un juge, un maire ou un fonctionnaire visé par le présent code.
2. Dans la forme religieuse légalement prévue.
[Tout ressortissant espagnol] peut aussi se marier à l'étranger conformément aux formes requises par la loi du lieu de la célébration ».
26. Les dispositions pertinentes de la loi no 30/1981, du 7 juillet 1981, portant modification des dispositions du code civil réglementant le mariage et la procédure à suivre pour les cas de nullité, séparation de corps et divorce.
Dixième disposition additionnelle
« (...)
2. [S'agissant des personnes] qui n'ont pas pu se marier en raison de la législation en vigueur à ce jour mais qui ont vécu comme [un couple marié], lorsque le décès de l'un des partenaires survient avant l'entrée en vigueur de la présente loi, le survivant aura droit aux prestations visées à l'alinéa premier de la présente disposition et à la pension correspondante conformément à l'alinéa suivant ».
27. L'article 2 de la loi 25/1971 du 19 juin 1971 relative à la protection des familles nombreuses est ainsi libellé.
Article 2
« 1. Est considérée comme une famille nombreuse celle qui, réunissant les autres conditions fixées par la présente loi, est constituée par :
a) le chef de famille, son conjoint et quatre enfants ou plus (...) ».
28. L'article 174 de la loi générale relative à la sécurité sociale (telle qu'en vigueur au moment des faits) se lit ainsi.
Article 174
« 1. Le conjoint survivant (...) a droit à la pension de réversion.
2. (...) En cas de nullité du mariage, le droit à la pension de réversion est reconnu au conjoint survivant, proportionnellement à la période de cohabitation avec l'ayant droit, sous réserve qu'il n'ait pas fait preuve de mauvaise foi et qu'il ne se soit pas remarié (...) »
29. L'article 174 de la loi générale sur la sécurité sociale, approuvée par le décret royal législatif 1/1994 du 20 juin 1994, est ainsi libellé.
Article 174
« 1. A droit à une pension de réversion à vie (...) le conjoint survivant lorsque, au décès de son conjoint, ce dernier travaillait (...) et avait cotisé pendant la période fixée par la loi (...)
2. Dans les cas de séparation de corps ou de divorce, le droit à la pension de réversion est reconnu à celui qui est ou a été le conjoint légitime, sous réserve, dans ce dernier cas, qu'il ne soit pas remarié, proportionnellement à la période de cohabitation avec le conjoint décédé et indépendamment des causes à l'origine de la séparation des corps ou du divorce.
En cas de nullité du mariage, le droit à la pension de réversion est reconnu au conjoint survivant sous réserve qu'il n'ait pas fait preuve de mauvaise foi et qu'il ne se soit pas remarié, proportionnellement à la période de cohabitation avec l'ayant cause. (...) »
30. La loi 40/2007 du 4 décembre 2007 sur des mesures relatives à la sécurité sociale, portant modification de la loi générale sur la sécurité sociale.
Troisième disposition additionnelle
« Exceptionnellement, le droit à la pension de réversion sera reconnu lorsque le décès de l'ayant-droit a eu lieu avant l'entrée en vigueur de la présente loi, sous réserve que les conditions suivantes soient réunies :
a. au moment du décès de l'ayant-droit, actif et cotisant à la sécurité sociale tel que visé par l'article 174 du texte simplifié de la loi générale sur la sécurité sociale, [le survivant] n'a pas pu faire valoir le droit à la pension de réversion
b. le bénéficiaire et l'ayant droit ont cohabité de façon ininterrompue en tant que concubins [...] pendant au moins les six années précédant le décès de ce dernier ;
c. l'ayant droit et le bénéficiaire ont eu des enfants en commun ;
d. le bénéficiaire n'a pas un droit reconnu à percevoir une pension contributive de la sécurité sociale.
e. pour avoir accès à la [présente] pension, la demande doit être présentée dans un délai non prorogeable de douze mois suivant l'entrée en vigueur de cette loi. La reconnaissance du droit à pension produira ses effets à partir du 1er janvier 2007, sous réserve que toutes les conditions prévues par cette disposition soient réunies».
31. Divers accords de coopération ont été conclus entre le Gouvernement et des confessions religieuses : accord avec le Saint-Siège (Concordat de 1979), accord avec la Fédération évangélique par la loi no 24/1992 du 10 novembre 1992, accord avec la Commission islamique par la loi no 26/1992 du 10 novembre 1992 et accord avec la Fédération israélite par la loi no 25/1992 du 10 novembre 1992. Les mariages conclus selon les rites de ces confessions sont par conséquent reconnus par l'État espagnol comme constituant une forme de manifestation du consentement pour se marier. Ils produisent donc des effets civils en vertu des accords passés avec l'État.
32. La jurisprudence pertinente du Tribunal constitutionnel
Les arrêts du Tribunal constitutionnel no 260/1988 du 22 décembre 1988 et 155/1998 du 13 juin 1998, parmi d'autres, concernent des droits à pension de réversion dans des cas où le mariage canonique n'était pas possible en raison de l'impossibilité de divorcer.
L'arrêt du Tribunal constitutionnel no 180/2001 du 17 septembre 2001 reconnaît le droit à indemnisation pour décès du compagnon si le mariage canonique n'était pas possible en raison d'une contradiction avec la liberté de conscience et de religion (avant la modification législative opérée en 1981)
L'arrêt du Tribunal constitutionnel no 199/2004, du 15 novembre 2004 porte sur un droit à pension de réversion dérivé d'un mariage canonique ne remplissant pas les conditions formelles posées par la loi puisqu'il était volontairement non inscrit au Registre civil. Le Tribunal constitutionnel a reconnu dans ce cas le droit du veuf à percevoir une pension de réversion.
33. La Convention-cadre du Conseil de l'Europe pour la protection des minorités nationales, ouverte à la signature le 1er février 1995, contient notamment les dispositions suivantes :
Article 1
La protection des minorités nationales et des droits et libertés des personnes appartenant à ces minorités fait partie intégrante de la protection internationale des droits de l'homme et, comme telle, constitue un domaine de la coopération internationale.
(...)
Article 4
1. Les Parties s'engagent à garantir à toute personne appartenant à une minorité nationale le droit à l'égalité devant la loi et à une égale protection de la loi. A cet égard, toute discrimination fondée sur l'appartenance à une minorité nationale est interdite.
2. Les Parties s'engagent à adopter, s'il y a lieu, des mesures adéquates en vue de promouvoir, dans tous les domaines de la vie économique, sociale, politique et culturelle, une égalité pleine et effective entre les personnes appartenant à une minorité nationale et celles appartenant à la majorité. Elles tiennent dûment compte, à cet égard, des conditions spécifiques des personnes appartenant à des minorités nationales.
3. Les mesures adoptées conformément au paragraphe 2 ne sont pas considérées comme un acte de discrimination.
Article 5
1. Les Parties s'engagent à promouvoir les conditions propres à permettre aux personnes appartenant à des minorités nationales de conserver et développer leur culture, ainsi que de préserver les éléments essentiels de leur identité que sont leur religion, leur langue, leurs traditions et leur patrimoine culturel.
2. Sans préjudice des mesures prises dans le cadre de leur politique générale d'intégration, les Parties s'abstiennent de toute politique ou pratique tendant à une assimilation contre leur volonté des personnes appartenant à des minorités nationales et protègent ces personnes contre toute action destinée à une telle assimilation. »
34. L'Espagne a signé la Convention le jour où elle a été ouverte à la signature et l'a ratifiée le 1er septembre 1995. Elle est entrée en vigueur à son égard le 1er février 1998.
EN DROIT
I. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L'ARTICLE 14 DE LA CONVENTION COMBINÉ AVEC L'ARTICLE 1 DU PROTOCOLE No 1
35. La requérante se plaint que le refus de lui accorder une pension de réversion au motif que son mariage célébré selon les rites de la minorité rom à laquelle elle appartient est dépourvu d'effets civils porte atteinte au principe de non-discrimination reconnu par l'article 14 de la Convention, combiné avec l'article 1 du Protocole no 1. Les dispositions citées sont ainsi libellées :
Article 14 de la Convention
« La jouissance des droits et libertés reconnus dans la (...) Convention doit être assurée, sans distinction aucune, fondée notamment sur le sexe, la race, la couleur, la langue, la religion, les opinions politiques ou toutes autres opinions, l'origine nationale ou sociale, l'appartenance à une minorité nationale, la fortune, la naissance ou toute autre situation. »
Article 1 du Protocole no 1
« Toute personne physique ou morale a droit au respect de ses biens. Nul ne peut être privé de sa propriété que pour cause d'utilité publique et dans les conditions prévues par la loi et les principes généraux du droit international. (...) »
A. Sur la recevabilité
36. La Cour constate que ce grief n'est pas manifestement mal fondé au sens de l'article 35 § 3 de la Convention. Elle relève par ailleurs que celui-ci ne se heurte à aucun autre motif d'irrecevabilité. Il convient donc de le déclarer recevable.
B. Sur le fond
1. Arguments des parties
a) La requérante
37. La requérante observe que le Gouvernement n'explique pas pourquoi sa situation est considérée comme une relation more uxorio et non comme un mariage nul de bonne foi qui serait susceptible de lui donner droit, en tant que conjoint survivant, à une pension de réversion. Elle souligne qu'elle n'avait aucune raison de penser que les droits sociaux dont elle bénéficiait pendant la vie de son mari lui seraient retirés lors du décès de ce dernier.
38. La requérante souligne que, dans d'autres cas, l'inexistence de tout mariage « légal » n'a pas empêché l'octroi d'une telle pension : ainsi, dans la loi générale portant sur la sécurité sociale, le droit à une pension est reconnu au conjoint de bonne foi en cas de nullité du mariage. En outre, la jurisprudence a reconnu le droit à pension dans le cas d'unions non inscrites au Registre civil lorsque les parties croyaient à l'existence du mariage, ou lorsque la loi empêchait le mariage en raison de l'impossibilité de divorcer, ou lorsque le mariage était en contradiction avec les croyances des intéressés.
b) Le Gouvernement
39. Le Gouvernement s'oppose à cette thèse. Il estime que, la loi appliquée à la requérante étant la même pour tous les Espagnols, aucune discrimination fondée sur l'ethnie ou une autre raison n'est à relever, la différence de traitement alléguée étant due au fait que la requérante n'était pas mariée mais avait une relation more uxorio avec M.D.
40. Le Gouvernement souligne que rien n'oblige à traiter de la même façon ceux qui respectent les formalités prévues par la loi et ceux qui, sans en être empêchés, ne les respectent pas. L'exigence posée par la loi de l'existence d'un lien matrimonial légal pour percevoir une pension de réversion ne constitue pas une différence fondée sur des raisons raciales ou ethniques. Le refus d'accorder ladite pension à la requérante a pour cause sa décision libre et volontaire de ne pas se conformer aux formalités légales du mariage, qui ne sont pas basées sur l'appartenance à une race déterminée, ni sur les traditions, usages ou coutumes d'une ethnie faisant tort à autrui. Ces formalités ne constituent donc pas une discrimination directe ou indirecte des Roms.
c) La tierce partie
41. L'Unión Romaní souligne que le mariage rom n'est pas différent des autres types de mariage. Elle explique que le mariage rom existe dès qu'une femme et un homme expriment leur volonté de vivre ensemble avec le souhait de fonder une famille, qui est le fondement de la communauté rom. Elle estime disproportionné le fait que 1'État espagnol, après avoir fourni à la requérante et à sa famille un livret de famille, leur avoir reconnu la situation de famille nombreuse, accordé une assistance en matière de santé à l'intéressée et ses six enfants et encaissé les cotisations de son mari pendant plus de dix-neuf ans, méconnaisse aujourd'hui la validité de son mariage rom en matière de pension de réversion.
2. Sur l'applicabilité de l'article 14 de la Convention combiné avec l'article 1 du Protocole no 1
42. La Cour rappelle que l'article 14 de la Convention n'a pas d'existence indépendante puisqu'il vaut uniquement pour la jouissance des droits et libertés garantis par les autres clauses normatives de la Convention et de ses Protocoles (voir, parmi beaucoup d'autres, Burden c. Royaume-Uni [GC], no 13378/05, § 58, 29 avril 2008). L'application de l'article 14 ne présuppose pas nécessairement la violation de l'un des droits matériels garantis par la Convention. Il faut, mais il suffit, que les faits de la cause tombent « sous l'empire » de l'un au moins des articles de la Convention (voir, parmi beaucoup d'autres, Gaygusuz c. Autriche, 16 septembre 1996, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, Thlimmenos c. Grèce [GC], no 34369/97, § 40, CEDH 2000-IV, Koua Poirrez c. France, no 40892/98, § 36, CEDH 2003-X et Andrejeva c. Lettonie [GC], no 55707/00, § 74, 18 février 2009). L'interdiction de la discrimination que consacre l'article 14 dépasse donc la jouissance des droits et libertés que la Convention et ses Protocoles imposent à chaque État de garantir. Elle s'applique également aux droits additionnels, relevant du champ d'application général de tout article de la Convention, que l'État a volontairement décidé de protéger (Stec et autres c. Royaume-Uni (déc.) [GC], nos 65731/01 et 65900/01, § 40 CEDH 2005-X).
43. Il convient dès lors de déterminer si l'intérêt de la requérante à percevoir de l'État une pension de réversion tombe « sous l'empire » ou « dans le champ d'application » de l'article 1 du Protocole no 1.
44. La Cour a affirmé que tous les principes qui s'appliquent généralement aux affaires concernant l'article 1 du Protocole no 1 gardent toute leur pertinence dans le domaine des prestations sociales (Andrejeva c. Lettonie, précité, § 77). Ainsi, cette disposition ne garantit, en tant que tel, aucun droit de devenir propriétaire d'un bien (Kopecký c. Slovaquie [GC], no 44912/98, § 35 b), CEDH 2004-IX) ni, en tant que tel, aucun droit à une pension d'un montant donné (voir, par exemple, Domalewski c. Pologne (déc.), no 34610/97, CEDH 1999-V, et Janković c. Croatie (déc.), no 43440/98, CEDH 2000-X). En outre, l'article 1 n'impose aucune restriction à la liberté pour les États contractants de décider d'instaurer ou non un régime de protection sociale ou de choisir le type ou le niveau des prestations censées être accordées au titre de pareil régime. En revanche, dès lors qu'un État contractant met en place une législation prévoyant le versement d'une prestation sociale – que l'octroi de cette prestation dépende ou non du versement préalable de cotisations –, cette législation doit être considérée comme engendrant un intérêt patrimonial relevant du champ d'application de l'article 1 du Protocole no 1 pour les personnes remplissant ses conditions (Stec et autres, décision précitée, § 54).
45. Comme la Cour l'a dit dans la décision Stec et autres (précitée), « [d]ans des cas tels celui de l'espèce, où des requérants formulent sur le terrain de l'article 14 combiné avec l'article 1 du Protocole no 1 un grief aux termes duquel ils ont été privés, en tout ou en partie et pour un motif discriminatoire visé à l'article 14, d'une prestation donnée, le critère pertinent consiste à rechercher si, n'eût été la condition d'octroi litigieuse, les intéressés auraient eu un droit, sanctionnable devant les tribunaux internes, à percevoir la prestation en cause (...). Si [l'article 1 du] Protocole no 1 ne comporte pas un droit de percevoir des prestations sociales, de quelque type que ce soit, lorsqu'un État décide de créer un régime de prestations, il doit le faire d'une manière compatible avec l'article 14 » (ibidem, § 55).
46. Compte tenu de ce qui précède, du fait de l'appartenance de la requérante à la communauté rom et de sa qualité de conjointe de M.D., reconnue dans certains cas par les autorités espagnoles mais pas en ce qui concerne la pension de réversion, la Cour estime que les intérêts patrimoniaux de la requérante entrent dans le champ d'application de l'article 1 du Protocole no 1 et du droit au respect des biens qu'il garantit, ce qui suffit pour rendre l'article 14 de la Convention applicable.
3. Sur l'observation de l'article 14 de la Convention combiné avec l'article 1 du Protocole no 1
a) La jurisprudence de la Cour
47. Selon la jurisprudence établie de la Cour, la discrimination consiste à traiter de manière différente, sauf justification objective et raisonnable, des personnes placées dans des situations comparables. Le « manque de justification objective et raisonnable » signifie que la distinction litigieuse ne poursuit pas un « but légitime » ou qu'il n'y a pas de « rapport raisonnable de proportionnalité entre les moyens employés et le but visé » (D.H. et autres c. République tchèque [GC], no 57325/00, §§ 175 et 196, CEDH 2007-..., et la jurisprudence y citée).
48. Les États contractants jouissent d'une certaine marge d'appréciation pour déterminer si et dans quelle mesure des différences entre des situations à d'autres égards analogues justifient des distinctions de traitement (voir, notamment, les arrêts précités Gaygusuz, § 42, et Thlimmenos, § 40). L'étendue de cette marge varie selon les circonstances, les domaines et le contexte. Ainsi, par exemple, l'article 14 n'interdit pas à un État membre de traiter des groupes de manière différenciée pour corriger des « inégalités factuelles » entre eux ; de fait, dans certaines circonstances, c'est l'absence d'un traitement différencié pour corriger une inégalité qui peut, sans justification objective et raisonnable, emporter violation de la disposition en cause (Thlimmenos, § 44, et Stec et autres c. Royaume-Uni [GC], no 65731/01, § 51, CEDH 2006-..., D.H. et autres, précité, § 175).
49. De même, une ample marge d'appréciation est d'ordinaire laissée à l'État pour prendre des mesures d'ordre général en matière économique ou sociale. Grâce à une connaissance directe de leur société et de ses besoins, les autorités nationales se trouvent en principe mieux placées que le juge international pour déterminer ce qui est d'utilité publique en matière économique ou en matière sociale. La Cour respecte en principe la manière dont l'État conçoit les impératifs de l'utilité publique, sauf si son jugement se révèle « manifestement dépourvu de base raisonnable » (voir, par exemple, National and Provincial Building Society et autres c. Royaume-Uni, 23 octobre 1997, Recueil 1997-VII, § 80, et Stec et autres, précité, § 52).
50. Enfin, en ce qui concerne la charge de la preuve sur le terrain de l'article 14 de la Convention, la Cour a déjà jugé que, lorsqu'un requérant a établi l'existence d'une différence de traitement, il incombe au Gouvernement de démontrer que cette différence de traitement était justifiée (D.H. et autres, § 177).
b) Application de la jurisprudence à la présente affaire
51. Quant aux circonstances de la présente affaire, la requérante se plaint du refus de lui accorder une pension de réversion en raison du fait qu'elle n'était pas mariée avec M.D, son union selon les rites et traditions roms ayant été considérée comme une relation more uxorio, une simple union de fait. Pour la requérante, assimiler sa relation avec M.D. à une simple union de fait quant à l'octroi de la pension de réversion, constitue une discrimination contraire à l'article 14 de la Convention combiné avec l'article 1 du Protocole no 1. Cette discrimination repose sur le fait que sa demande de pension de réversion a reçu un traitement différent par rapport à d'autres cas équivalents dans lesquels le droit à l'octroi de la pension de réversion a été reconnu, en l'absence même de mariage selon les formalités légalement établies, alors que, dans son cas, ni sa bonne foi ni les conséquences de son appartenance à la minorité rom n'ont été prises en compte.
52. La Cour constate que la requérante s'est mariée avec M. D. en novembre 1971 selon les rites et traditions propres à la communauté rom. De cette union sont nés six enfants. L'intéressée a vécu avec M.D. jusqu'au décès de ce dernier, le 24 décembre 2000. Le Registre civil leur a délivré un livret de famille le 11 août 1983, où sont inscrits le couple et ses enfants. Le 14 octobre 1986, ils ont obtenu le titre administratif de famille nombreuse, pour lequel la condition de « conjoint » était requise (paragraphe 27 ci-dessus) et ont bénéficié de tous les droits y afférents. Par ailleurs, M.D. était affilié à la Sécurité Sociale et y a cotisé pendant dix-neuf ans, trois mois et huit jours, et il était en possession d'une carte de bénéficiaire où figuraient à sa charge la requérante, en tant qu'épouse, et ses six enfants. Pour la Cour il s'agit-là d'un document officiel dans la mesure où il est tamponné par l'agence no 7 de Madrid de l'INSS.
53. Concernant le régime relatif aux pensions de réversion applicable au moment des faits, la Cour observe que la loi générale sur la sécurité sociale, dans sa version en vigueur à l'époque, reconnaissait le droit à une pension de réversion au conjoint survivant. Cette disposition légale était toutefois complétée et nuancée tant dans la loi elle-même que dans la jurisprudence des tribunaux internes, y compris celle du Tribunal constitutionnel (paragraphe 32 ci-dessus).
La jurisprudence constitutionnelle prend en effet en compte, pour la reconnaissance de pensions de réversion, tant l'existence de la bonne foi que la présence de circonstances exceptionnelles rendant impossible la célébration du mariage, même lorsque le mariage légalement valable n'avait pas eu lieu. La Cour relève que la dixième disposition additionnelle de la loi 30/1981 du 7 juillet 1981, qui modifie le régime matrimonial (paragraphe 26 ci-dessus) reconnaît le droit à percevoir une pension de réversion même en l'absence de mariage, en cas d'impossibilité de prestation du consentement par le rite canonique. Elle observe que, selon l'interprétation de cette disposition par la jurisprudence constitutionnelle, il est possible d'octroyer des pensions de réversion en cas d'impossibilité de se marier (canoniquement) en raison de l'inexistence de divorce, ou encore lorsque le mariage est en contradiction avec les croyances des conjoints (paragraphe 32 ci-dessus). Quant à la loi générale portant sur la sécurité sociale telle qu'en vigueur au moment des faits, elle reconnaît, dans son article 174, le droit du conjoint de bonne foi à une pension de réversion en cas de mariage nul. Le Tribunal constitutionnel a par ailleurs reconnu, notamment dans son arrêt 99/04 (paragraphe 32 ci dessus), un droit à une pension de réversion dans le cas d'un mariage canonique alors que les conditions légalement requises n'étaient pas remplies, l'union n'ayant pas été inscrite au Registre civil pour des motifs de conscience.
54. Au vu de ce qui précède, la question qui se pose dans la présente affaire est celle de savoir si le fait pour la requérante de s'être vu dénier le droit de percevoir une pension de réversion révèle un traitement discriminatoire fondé sur l'appartenance de l'intéressée à la minorité rom, par rapport à la façon dont la législation et la jurisprudence traitent de situations analogues, lorsque les intéressés croient de bonne foi à l'existence du mariage même si celui-ci n'était pas légalement valable.
55. La requérante base sa prétention, d'une part, sur sa conviction que son union, célébrée conformément aux rites et traditions roms était valable et, d'autre part, sur la conduite des autorités, qui lui ont reconnu officiellement la qualité d'épouse de M.D. et, par conséquent, ont admis selon elle la validité de son mariage.
56. La Cour estime que les deux questions sont intimement liées. Elle observe que les autorités nationales n'ont pas nié que la requérante croyait de bonne foi à la réalité de son mariage. La conviction de l'intéressée est d'autant plus crédible que les autorités espagnoles lui ont délivré plusieurs documents officiels attestant de sa qualité d'épouse de M.D.
Pour la Cour, il convient de souligner l'importance des croyances que la requérante tire de son appartenance à la communauté rom, communauté qui a ses propres valeurs établies et enracinées dans la société espagnole.
57. La Cour observe, en l'espèce que, lorsque la requérante se maria en 1971 conformément aux rites et traditions roms, il n'était pas possible en Espagne, sauf déclaration préalable d'apostasie, de se marier autrement que conformément aux rites du droit canonique de l'Église catholique. La Cour estime qu'on ne pouvait exiger de la requérante, sans porter atteinte à son droit à la liberté religieuse, qu'elle se mariât légalement, à savoir selon le droit canonique en 1971, lorsqu'elle manifesta son consentement pour se marier selon les rites roms.
58. Certes, à la suite de l'entrée en vigueur de la Constitution espagnole de 1978 et en vertu de la loi 30/1981 du 7 juillet 1981 (paragraphe 26 ci-dessus), la requérante aurait pu se marier civilement. La requérante soutient qu'en toute bonne foi, elle croyait que le mariage célébré conformément aux rites et traditions roms entraînait tous les effets propres à cette institution.
59. Pour apprécier la bonne foi de la requérante, la Cour doit prendre en considération l'appartenance de celle-ci à une communauté au sein de laquelle la validité du mariage selon ses propres rites et traditions n'a jamais été contestée ni considérée comme contraire à l'ordre public par le Gouvernement ou par les autorités nationales, qui ont même reconnu à certains égards la qualité d'épouse de la requérante. Elle estime que la force des croyances collectives d'une communauté culturellement bien définie ne peut pas être ignorée.
60. La Cour observe à cet égard qu'un consensus international se fait jour au sein des États contractants du Conseil de l'Europe pour reconnaître les besoins particuliers des minorités et l'obligation de protéger leur sécurité, leur identité et leur mode de vie (voir le paragraphe 33 ci-dessus, notamment la Convention-cadre pour la protection des minorités), non seulement dans le but de protéger les intérêts des minorités elles-mêmes mais aussi pour préserver la diversité culturelle qui est bénéfique à la société dans son ensemble (Chapman c. Royaume-Uni [GC], no 27238/95, § 93, CEDH 2001-I).
61. La Cour estime que, si l'appartenance à une minorité ne dispense pas de respecter les lois régissant le mariage, cela peut influer sur la manière d'appliquer ces lois. La Cour a déjà eu l'occasion de souligner dans l'arrêt Buckley (certes dans un contexte différent), que la vulnérabilité des roms, du fait qu'ils constituent une minorité, implique d'accorder une attention spéciale à leurs besoins et à leur mode de vie propre, tant dans le cadre réglementaire valable en matière d'aménagement que lors de la prise de décision dans des cas particuliers (arrêt Buckley c. Royaume-Uni, 25 septembre 1996, §§ 76, 80, 84, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, Chapman c. Royaume-Uni [GC], précité, § 96, et Connors c. Royaume-Uni, no 66746/01, § 84, 27 mai 2004).
62. En l'espèce, la conviction de la requérante quant à sa condition de femme mariée avec tous les effets inhérents à cet état, a indéniablement été renforcée par l'attitude des autorités, qui lui ont reconnu la qualité d'épouse de M.D. et, très concrètement, par la délivrance de certains documents de la sécurité sociale, notamment le document d'inscription au système, qui établissaient sa condition d'épouse et mère d'une famille nombreuse, situation considérée comme spécialement digne d'aide et qui exigeait, par application de la loi no 25/1971 du 19 juin 1971, la reconnaissance de la qualité de conjoint.
63. Pour la Cour, la bonne foi de la requérante quant à la validité de son mariage, confirmée par la reconnaissance officielle de sa situation par les autorités, a engendré chez l'intéressée l'attente légitime d'être considérée comme l'épouse de M.D. et de former un couple marié reconnu avec celui-ci. Après le décès de M.D. il est naturel que la requérante ait nourri l'espoir de se voir reconnaître une pension de réversion.
64. Par conséquent, le refus de reconnaître la qualité de conjointe à la requérante aux fins de l'obtention d'une pension de réversion contredit la reconnaissance préalable de cette qualité par les autorités. Ce refus a par ailleurs omis de tenir compte des spécificités sociales et culturelles de la requérante pour apprécier la bonne foi de celle-ci. A cet égard, la Cour rappelle que, conformément à la Convention-cadre pour la protection des minorités nationales (paragraphes 33 et 34 ci-dessus), les États parties à ladite Convention s'obligent à tenir dûment compte des conditions spécifiques des personnes appartenant à des minorités nationales.
65. La Cour estime que le refus de reconnaitre le droit pour la requérante de percevoir une pension de réversion constitue une différence de traitement par rapport au traitement donné, par la loi ou par la jurisprudence, à d'autres situations qui doivent être tenues pour équivalentes en ce qui concerne les effets de la bonne foi, tels que la croyance de bonne foi en l'existence d'un mariage nul (article 174 de la LGSS, ou la situation examinée dans l'arrêt du Tribunal constitutionnel no 199/2004, du 15 novembre 2004 – paragraphe 32 ci-dessus –, qui concernait la non-formalisation, pour des raisons de conscience, d'un mariage canonique). La Cour estime avéré que, compte tenu des circonstances de l'espèce, cette situation constitue une différence de traitement disproportionnée vis-à-vis de la requérante par rapport au traitement réservé au mariage de bonne foi.
66. Certes, l'article 174 de la LGSS, tel qu'en vigueur au moment des faits, ne reconnaissait la pension de réversion en cas d'absence de mariage légal que lorsque le mariage était nul de bonne foi. Cependant, cette disposition ne permet pas à l'État défendeur de s'exonérer de toute responsabilité au regard de la Convention. La Cour observe à cet égard que la loi 40/2007 a introduit dans la LGSS la possibilité de se voir octroyer une pension de réversion pour les cas d'unions de fait (paragraphe 30 ci-dessus).
67. La Cour constate que, dans son jugement rendu le 30 mai 2002, le juge du travail no 12 de Madrid a interprété la législation applicable en faveur de la requérante. Il a fait référence à l'article 4 § 1 du code civil, selon lequel les normes peuvent être appliquées par analogie lorsqu'elles ne visent pas le cas d'espèce mais un autre, analogue, avec lequel une similitude d'objet peut être perçue. Il a dès lors interprété la législation applicable conformément aux critères exposés par la Cour dans l'arrêt précité Buckley c. Royaume-Uni.
68. Ce jugement a toutefois, été infirmé par l'arrêt d'appel du 7 novembre 2002. Le Tribunal supérieur de justice de Madrid a en effet considéré (paragraphe 15 ci-dessus) que « le principe d'égalité et de non-discrimination repose sur l'idée que des situations égales doivent faire l'objet d'un traitement égal » et « qu'un traitement égal appliqué à des situations qui ne sont pas égales constitue une injustice ». La Cour relève qu'aucune conclusion n'a été tirée par la juridiction d'appel des spécificités de la minorité rom, bien que le Tribunal ait reconnu que le mariage rom a « certes un sens et bénéficie d'une reconnaissance sociale dans le milieu concerné » et que la moralité ou la conformité de ce rite à l'ordre public n'étaient pas mises en cause. Pour le Tribunal supérieur de justice il est clair que cette situation « n'exclut pas et ne remplace pas actuellement la loi en vigueur et applicable à l'espèce ».
69. A la lumière de ce qui précède et compte tenu des circonstances spécifiques de la présente affaire, la Cour estime qu'il est disproportionné que l'État espagnol, qui a attribué à la requérante et sa famille rom un livret de famille, leur a reconnu le statut de famille nombreuse, leur a octroyé, à l'intéressée et à ses six enfants, une assistance en matière de santé, et qui a perçu les cotisations de son mari rom à la sécurité sociale pendant plus de dix-neuf ans, ne veuille pas aujourd'hui reconnaître les effets du mariage rom en matière de pension de réversion.
70. Enfin, la Cour ne saurait accepter la thèse du Gouvernement selon laquelle il aurait suffit à la requérante de se marier civilement pour obtenir la pension réclamée. En effet, l'interdiction de discrimination consacrée par l'article 14 de la Convention n'a de sens que si, dans chaque cas particulier, la situation personnelle du requérant par rapport aux critères énumérés dans cette disposition est prise en compte telle quelle. Une approche contraire, consistant à débouter la victime au motif qu'elle aurait pu échapper à la discrimination en modifiant l'un des éléments litigieux – par exemple, en se mariant civilement – viderait l'article 14 de sa substance.
71. En conséquence, la Cour conclut qu'il y a eu en l'espèce violation de l'article 14 de la Convention combiné avec l'article 1 du Protocole no 1.

16 September 2009

DOS HOMBRES Y UN DESTINO: EL DERECHO

Tras la publicación del trabajo de Miquel Falguera (A UN AÑO DE LEHMAN BROTHERS), mi sobrino Antonio Baylos escribió lo que se verá en DERECHO Y SOCIALISMO EN EL PENSAMIENTO JURÍDICO . Tras lo cual, el primero respondió lo que viene a continuación:




Querido Antonio, permíteme unas reflexiones sobre las tuyas posteriores a las mías. Uno podría tener la impresión leyendo el texto que, de alguna manera, se sitúa el papel del juez -y, por tanto, de la jurisprudencia- como un elemento central en el avance hacia otra forma -socialista- de ejercicio del derecho. Ya sé que no dices eso, pero me preocupa que alguien pueda entender tus palabras así.Y eso sitúa mi apostilla aquí en el propio modelo de ejercicio del poder judicial en este país. Se trata, como bien sabes, de una lógica piramidal, fuertemente estructurada -formal y sustancialmente... está mal visto quien se sale del encuadre de la foto... el maldito juez estrella- y altamente jerarquizada. Es difícil hallar consensos en los TSJ -la instancia es otra cosa porque se goza de mayor libertad- para desviarte de la doctrina casacional. Quiero recordar que en el anterior y conservador presidente del CGPJ libró una encarnizada batalla para hacer de forzoso cumplimiento la jurisprudencia -como actualmente ocurre con la doctrina del TC-, lo que afortunadamente no prosperó. Con todo, quizás existe una cierta mitificación de la jurisprudencia. "Lo ha dicho el TS"... y se ha acabado la discusión -aunque no se comparta mayoritariamente esa doctrina-. Encogimiento de hombros y corta y pega de lo que ha dicho el TS. Así se fosiliza la doctrina (y añado: yo, el primero)(sigue)
16 de septiembre de 2009 17:29
tiopuñetas dijo...
Cuando uno va un poquito más allá e intenta no forzar la norma, sino interpretarla de otra manera distinta, te llueve la cantinela del "uso alternativo del Derecho" -que es otra cosa- y la sacrosanta "voluntad del legislador" (como si los jueces fuéramos intérpretes de dicha voluntad y no de la Ley) Te podría citar muchos ejemplos al respecto -y algunos nombres de interlocutores con esas tesis te podrían sorprender-. Pero ése es el actual panorama.Ocurre, sin embargo, que yo vengo diciendo con reiteración que posiblemente sea el TS quien hace un uso alternativo del Derecho. Por ejemplo -tengo muchas posibilidades que citar-, cuando el precio de la hora extra era (RDL 1/1986) del 175 % sobre la hora normal, si el convenio regulaba un precio menor, la jurisprudencia lo validaba, porque consideraba que no era norma mínima -pese a que el contenido del art. 35 ET pocas dudas ofrece al respecto- (entre otras muchas, SSTS UD 30.12.1992, 30.11.1994, 27.02 y 17.05.1995, etc.). Sin embargo, cuando la reforma del 94 situó el precio de la hora en el 100 por cien -con idéntico redactado al anterior, salvo el porcentaje-, entonces la doctrina judicial afirmó que sí valía. La razón dada era que el RDL 1/1986comportó un "encarecimiento del precio de las horas extraordinarias", afirmándose posteriormente respecto a los precedentes legislativos anteriores al Estatuto que “ante la imposición de la realidad, la doctrina de esta Sala hubo de optar por una interpretación flexible del mandato estatutario, cuando se hacía evidente que el precio pactado de la hora en exceso, no tenía tan gravoso recargo" (STS UD 28.11.2004) Y, luego, la posterior STS UD 12.01.2005 lo deja aún más claro, por si había dudas: se hacía referencia "a la inadecuación del ya histórico elevado recargo legal"En plata: antes no se aplicaba el criterio legal porque era muy caro para el empresario, y ahora no. ¡Toma uso alternativo del Derecho y toma voluntad del legislador!(y sigue)
16 de septiembre de 2009 17:30
tiopuñetas dijo...
Pero hay más cosas que me preocupan, como por ejemplo, que en los últimos cinco años se haya cambiado la composición de más del sesenta por ciento de la Sala Cuarta. Y, sin embargo, las grandes cuestiones que nos hieren (despidos sin causa, despidos en IT, cuantificación de indemnizaciones por vulneración de derechos fundamentales, contratos de obra para contratas, responsabilidad de los grupos de empresa, protección para los trabajadores objeto de descentralización productiva, limitaciones de disponiblidad del convenio por las comisiones paritarias, teoría de los pactos extraestutarios, la técnica aplicativa del derecho a la igualdad en los convenios y en las decisiones unilaterales del empresario, etc) siguen igual, si no peor (la interpretación del TS del art. 56.2 y los salarios de tramitación tras el Decretazo quizás merezca algún comentario crítico)Pero hay más -y aquí viene la segunda matización a tus reflexiones-: el jurista socialista que hace de juez (y digo públicamente que yo lo soy, en tanto que los que invocan el neoliberalismo no se esconden) no tiene en los actuales momentos horizontes alternativos -que es lo que intentaba denunciar en la parte final de mi escrito-. ¿Qué "programa socialista" puedo aplicar yo como jurista, si ese programa es inexistente y no hay alternativas reales de alternatividad?Por tanto, permíteme que derive responsabilidades hacia otros -aceptando las mías-: cuando la izquierda tenga claro cuál es su modelo alternativo y cuando el sindicato supere sus corsés ideológicos y prácticos actuales, dotándose también de alternatividad "in toto", se nos podrá exigir a los jueces rojos esa progresiva adaptación al nuevo panorama. Mientras tanto, uno se siente como una especie de fracotirador, sin saber dónde ha de situarse y sin una estrategia global en la que ampararse. Y me vas a permitir un último exabrupto: algunos nos sentimos sin apoyo de la llamada doctrina científica. Y, obviamente no va por tí (ya has cumpido bastante con tus obras, especialmente "DT, modelo para armar" y el último libro sobre despido) Pero uno empieza a estar harto de tanto análisis descriptivo de leyes y jurisprudencia que puebla la literatura jurídica académica ("Zutano dice tal, mengano lo otro y la Ley aquello de allá"... ¿pero tú qué dices?). Y ése es un vicio en el que caen compañeros iuslaboralistas que se proclaman claramente de izquierdas.Quizás ha llegado el momento de dejar de mirarnos el ombligo, olvidarnos de las Leyes y la jurisprudencia y empezar a pensar cómo queremos que sea el marco regulador de las tutelas del Derecho del Trabajo en un futuro modelo democrático de relaciones laborales, adaptado al cambio productivo, tecnológico y del sujeto asalariado. Y cuando tengamos ese programa, empezar a trabajar en él desde las distintas perspectivas.Ya se sabe, "programa, programa y programa".
Simon Muntaner dijo...
Querido Falguera, en tantas cosas estoy de acuerdo contigo. Ante todo en la función de la jurisprudencia y del rol que los jueces deben asumir en la transformación del sistema jurídico. Pero también en la incapacidad de los "academicos" para repensar las relaciones de trabajo en términos de reformismo gradual o de crítica global o específica a las tendencias en acto en el panorama legal y normativo de un país determinado. El problema es el de cómo arbitrar "un modo de estar" en el derecho y en el sistema jurídico que permita expresar una construcción alternativa y emancipatoria que se resuelva en una ampliación de los derechos laborales por todas partes negados.Y hay otro estamento que no hemos zarandeado aún, el de los abogados laboralistas, que deberían a su vez sacudirse su posición objetivamente subalterna en relación con los grandes estudios jurídicos que dirigen las líneas de política del derecho en materia laboral actualmente, y preparar sus defensas no sólo sobre la caracterización de la restructuración capitalista, sino también en razón de utilidades técnico-jurídicas que respondan a intereses alternativos y emancipatorios de los trabajadores.Pero es un tema que merecería una reflexión mucho más extensa y profunda en relación con la capacidad del derecho en movilizar el cambio social Pero seguiremos acordando sobre este y otros temas, mon vieux compagnon.


14 September 2009

A UN AÑO DE LEHMAN BROTHERS

(O LA ESTUPEFACCIÓN DEL JURISTA ANTE LA CRISIS)

Miquel Àngel FALGUERA BARÓ


Mi pasión por el Derecho no me ha hecho olvidar mi formación e ideología marxistas. Aunque a veces lo omita en la abstracción del análisis, nunca dejo de recordar que en el fondo el Derecho no es más que una superestructura de los grupos dominantes en el marco de la lucha de clases y que, por tanto, se acaba sometiendo a los intereses de doña Economía. Algo que algunos “modernos” consideraban viejos axiomas caducos y que la actual crisis –en el caldo de cultivo previo del neoliberalismo sin límites- se está encargando de verificar con toda su crudeza.


Ocurre, sin embargo, que el jurista, en su introspección, tiende a diseñar su propia teoría del Derecho (personal e intransferible) y a ordenar el mundo conforme a dicha teoría. Por eso el jurista de verdad –no el titulado en Derecho que se dedica a otras cosas, como la política en sentido amplio- vive en un mundo ficticio. Un mundo perfecto. Pero un mundo irreal que nada –o muy poco- tiene que ver con la realidad que le envuelve. Llámenle si quieren “paranoia del jurista”. O, si se prefiere, el conflicto personal de la ética en clave kantiana, la diferencia entre el ser y el deber ser.


El maestro Norberto Bobbio hace tiempo me dio (o, mejor dicho, me di a mi mismo a través de su lectura) una receta milagrosa para superar mis crisis kantianas: “Para quien quiera eliminar los conflictos sociales (y no solamente resolverlos de una manera menos desastrosa que la de la guerra), el ideal de paz jurídica o del orden no es suficiente: tendrá que actuar sobre los motivos de los conflictos sociales sustituyendo por un orden justo el presente orden injusto. La antítesis no será ya la de paz-guerra, en la que se detienen los partidarios del Derecho como orden, sino la de, pongamos por caso, igualdad-desigualdad, de la que parten los partidarios del Derecho como justicia”. Bueno: esas sabias palabras (contenidas en su libro Contribución a la teoría del Derecho) me ayudan en momentos de ataques agudos, pero difícilmente me restablecen la salud mental. Sin ánimo de comparación entre su autor y un servidor –mi egolatría no llega a tanto-, es evidente que el docto torinés era un pensador del Derecho y yo, un simple juez. El podía elevarse por encima de leyes, reglamentos y jurisprudencia y observar más allá; yo aplico, como poder del Estado, leyes, reglamentos y jurisprudencia. Él hacía la teoría abstracta del mañana (de su mañana), yo la práctica del conflicto real del hoy.


Si, además, uno es marxista (lo que ya no es predicable en sentido estricto de Bobbio), es ya inevitable convertirse en una especie de esquizofrénico: mi mundo igualitariamente perfecto (mi deber ser) es sabedor que, en el fondo –en el ser-, mi sustento y mi saber pasan por la aplicación de lógicas e instrumentos de represión sobre los débiles y de salvaguardas de los poderosos, por la violencia de la clase dominante sobre la dominada. Pero, con todo, la enseñanza bobbiana me es útil, en tanto que me lleva a una noción instrumental o finalista del Derecho (como herramienta para conseguir la Justicia con mayúsculas o el orden justo) y me aparta de un concepto abstracto y acausal en el ejercicio de mi disciplina. Sin embargo, no evita que mi “yo” marxista y mi “yo” jurista estén permanentemente a la greña.


Sin duda que el Derecho del Trabajo es un buen refugio para los enfermos mentales como un servidor. O, si se prefiere, una buena excusa para mi mala consciencia roja. Aunque el iuslaboralismo no se escapa del paradigma marxista sobre el Derecho, es probablemente la única disciplina jurídica en la que se plasma con toda su crudeza la lucha de clases, de tal manera que la realidad de la regulación del mercado de trabajo es fruto de las relaciones de fuerzas de ese colosal combate. Matiza mi alter ego marxista: de unas relaciones de fuerza asimétricas en las que el Estado –también desde su vertiente represiva- no es neutro. No se me escapa que es un juego tramposo, en el que el árbitro no es imparcial y en el que las reglas de juego obedecen a los intereses de una de las partes (el empleador), quien, además tiene competencias para ir cambiando a su antojo dichas reglas. Sin embargo, no siempre pierde la otra parte: algunas veces el jugador débil avanza posiciones. Siempre y cuando tenga contundencia y claridad en su jugada y sepa cuál es su siguiente movimiento. Así, pues, cuando más fuertes son los trabajadores, más garantías conquistan. Y viceversa.


Esa partida con reglas cambiantes lleva practicándose más o menos civilizadamente, hace un siglo. Sin duda que el enfrentamiento entre capital y trabajo es muy anterior. Ocurre, sin embargo, que en esa primera etapa el conflicto se dirimía a mamporros, sin normas, sin juridificación (más allá de la directa aplicación represiva del código penal sobre el jugador débil cuando golpeaba más duro) Y las reglas de esa partida secular y formalmente pacífica constituyen mi disciplina.


Es más, hace tiempo que vengo sustentando que el Derecho del Trabajo es la disciplina más democrática. Democrática en el sentido integral, en tanto que se trata de la única vertiente del Derecho en la que la libertad contractual se ve limitada para una de las partes, en función de la concurrencia de elementos igualitarios. A lo que cabe añadir que aún corre por nuestras venas la “vieja” –por olvidada- utopía robespierriana de la fraternidad, como lo demuestra nuestra otra gran institución, la Seguridad Social. Por eso estoy también convencido que el iuslaboralismo es “el derecho de la izquierda”.


Todo ello me ayuda a sobreponerme a las crisis que causan mis enfermedades mentales de origen profesional derivadas de mi ideología: “en definitiva –dice mi yo marxista- soy una especie de infiltrado que práctica el entrismo”. Con mis limitados saberes y mi práctica profesional, aún aplicando normas impuestas por una clase (por un jugador que no deseo que gane), intento –en términos generales, no por supuesto “ad causam” pues, en definitiva, soy juez- que la partida se decante por el más débil. Y, además, matiza mi yo jurista, estoy coadyuvando, aunque sea con una mínima aportación, al progreso de un concepto de democracia integral, en los viejos términos de Platón y Aristóteles, depurados y desarrollados por el humanismo renacentista, la Ilustración, las revoluciones burguesas y la lucha del movimiento obrero. Una democracia integral como fin último que, en sus tiempos, se llamaba socialismo.


Esas excusas, sin embargo, no amagan que cada vez deba consumir más dosis de bicarbonato: mis distintas personalidades se enfrentan todos los días a una realidad que cada vez les es más hostil. Y ello desde hace ya un montón de años (más o menos, los últimos veinticinco, desde el avance de lo que se conoce como neo-liberalismo) La abstracción de los valores del derecho en clave democrática choca cada día más con una realidad –impuesta por la clase dominante- que niega aspectos sustantivos como la igualdad y la fraternidad. Y todo ello significa que cada vez más el Derecho se vaya convirtiendo en una especie de amanuense de doña Economía. Es cierto –así empezaba mis reflexiones- que mi disciplina está sometida a esta última por definición marxista. Sin embargo, uno es hijo de su tiempo. Y verán, yo viví mi etapa formativa inicial (como jurista y como marxista) en un momento en el que el jugador más débil era menos débil. En la que la correlación de fuerzas era otra. En la que el “peligro rojo” había obligado al tahúr ventajista a firmar unas determinadas reglas de juego menos ominosas y más igualitarias. O, desde la visión como jurista, un tiempo en que la noción de democracia integral y de Estado social y democrático de Derecho basado en la ciudadanía social era un lugar común de la ciudadanía, conformándose como un modelo tendencial.


Pero hace ya muchas –muchísimas- lunas que con el llamado neoliberalismo esos buenos tiempos han pasado. Mientras el capital va ganando competencias al trabajo y se incrementa la distribución negativa de rentas, la democracia se equipara y se constriñe a la libertad, obviándose que es mucho más que eso. Atónito he asistido a conversaciones con jóvenes altermundistas que niegan la democracia como sistema, equiparándola con los actuales modelos liberales y cayendo ingenuamente en la trapa del discurso hegemónico, al que se oponen. En mi mundo perfecto de jurista, la democracia es un desiderátum, consistente en una sociedad conformada por una ciudadanía libre, pero también igual y solidaria (o fraternal o que tiene reconocido el derecho a la felicidad de los padres constituyentes norteamericanos) de tal manera que cada persona puede desarrollar todos sus potenciales humanos. Y, por supuesto, que ese desiderátum coincide, también, con el de mi “alter ego” marxista. Al fin y al cabo, la diferencia histórica sustancial entre la derecha liberal (no estoy hablando ahora, por supuesto, de la derecha neo-cons, absolutista, meapilas y palurda, aunque en la mayor parte de países ambas hayan coincidido en una única organización, cada vez más peligrosamente dominada por esta última) y las diversas izquierdas es que aquélla equipara democracia con libertad individual, mientras que éstas hablan de democracia integral y colectiva (aunque es cierto que, más allá de concretas estrategias, un sector ha negando la libertad en etapas más o menos largas de transición al socialismo y el otro, ha situado el fin de democracia absoluta en el baúl de los recuerdos, enfrascado en la simple gestión del día a día…).


Uno –con la doble esquizofrenia a cuestas- sigue soñando con su mundo perfecto. Y no como simple utopía ideológica –que también-, sino por la necesidad de dar orden y sentido a mi condición de jurista. Sin embargo, el pensamiento y la práctica neoliberal quiere limitar mi disciplina al estricto marco de la gestión de la mano de obra en la empresa, de tal manera que nos acabemos convirtiendo en una especie de mamporreros de la productividad y la competitividad. Y ése es un futuro que aborrezco.


Pero ocurre –como señala en forma repetitiva el maestro ROMAGNOLI, constatando una evidencia aunque predicando en el desierto- que el derecho es algo más que ese modelo “sin memoria” que se nos pretende imponer. Quizás no está de más recodar que la economía, como supuesta “ciencia”, cuenta con apenas dos siglos de vida, mientras que el derecho se remonta, al menos tal y como hoy lo conocemos en su acepción contractual, a la antigua Roma. En efecto, el derecho (sin que toque ahora abordar el interminable debate sobre si es una ciencia) no es nada más que la aplicación del simple sentido común la conflicto individual y colectivo a efectos de composición. Es decir, la proposición que se asemeja más prudente y ponderada para la mayoría de ciudadanos, en función de las reglas de la inteligencia humana y de la experiencia que se deriva del acerbo histórico como especie. Uno puede creer que hoy la “ley del Talión” es una barbaridad –y sin duda lo es en los países occidentales-, pero ocurre que en su momento, fue una lógica distributiva evidente: si te sacan un ojo, tú sólo puedes castigar al causante con idéntico daño, no tienes porqué matarlo. Y contra lo que se acostumbra a creer la reminiscencia de la medida no está sólo en el Levítico, ya consta en el anterior Código de Hammurabi. Y luego, la sabia Roma empezó a patrimonializar el daño, evitando que los ciudadanos se fueran vaciando las órbitas los ojos los unos a los otros (y también lo hizo mucho siglos antes de que el gran Mahatma afirmara aquello de “ojo por ojo y el mundo acabará ciego”).


Yo, como juez de lo social, no soy un simple “corre ve y dile” de la economía. En mi pluma –virtual- y en mis razonamientos discurre la lógica del derecho romano, los valores del humanismo, la Ilustración y de los movimientos emancipatorios de la “povertà laboriosa” (y no hablo en primera persona, sino como iuslaboralista anónimo, como ocurre con cualquier otro jurista). Cuando me enfrento a un conflicto, para solucionarlo, no me invento nada, lo hago a partir de los previos razonamientos de miríadas de juristas que han demostrado que determinadas reglas y formas de pensar son indudablemente efectivas para la paz social. Nosotros los juristas no hablamos de dineros. Nosotros hablamos de derechos y de civilidad.


Sin embargo, mi disciplina jurídica y sus valores democráticos integrales se ven públicamente negados en múltiples foros y por pensadores bien pagados: se nos dice que somos antiguos, que con nuestras absurdas tutelas estamos disgregando al colectivo asalariado, que somos una rémora para la competitividad, que no hacemos más que regular intervencionismos, que nuestro modelo de Seguridad Social se ha privatizar porque es insostenible y adocena a los beneficiarios incapacitándoles para los retos de la sociedad del riesgo… Llevamos mucho años oyendo esas cantinelas, que a fuerza de ser constante y masivamente repetidas –ya se sabe, la teoría de Goebbels- acaban convirtiéndose en verdades rebeladas, que se metabolizan incluso por una buena parte de las personas asalariadas. Y no sólo eso: cada día me veo presionado por la Ley –y también en determinados casos, por la interpretación de la misma por el Tribunal Supremo- para que aplique conceptos que no entiendo –porque son ajenos al derecho- y otros que no comparto por simple lógica democrática integral. Así, entre los muchos ejemplos que podría poner aquí, debo decidir si una determinada modificación de las condiciones de trabajo o un despido objetivo por causas no directamente económicas es eficaz para “mejorar la situación de la empresa a través de una más adecuada organización de sus recursos, que favorezca su posición de competitiva en el mercado o una mejor respuesta a las exigencias de la demanda” (arts. 44 y 52 ET), lo que ciertamente me aboca a pensar en una lógica que no es la del derecho. O debo tragar sapos y culebras no declarando, como me pide mi alter ego jurista, nulo un despido que no tiene causa justificativa o el de un trabajador de baja por enfermedad porque ésa es la jurisprudencia.


Y es aquí donde mi alma de jurista se colapsa. Mientras mi alma marxista la regaña (“¿lo ves?, si te lo vengo diciendo toda la vida”), aquella otra no entiende porqué elementos como la productividad o la competitividad deben prevalecer sobre los valores iuslaboralistas. Repito lo antes dicho: los juristas no hablamos de dineros, sino de derechos.


Creo que no es anecdótico que uno de los múltiples dogmas neoliberales pase por la afirmación (respecto a la política o a la Administración pública) de que “hay demasiados juristas” –lo que no pasa de ser una conclusión accesoria de otros dogmas principales, como la necesidad de desregular las relaciones contractuales o la exigencia de menores intervencionismos del Estado-. Y ese dogma ha comportado que buena parte de las reformas de las leyes laborales de este país –como en tantos otros- se hayan basado no tanto en las inquietudes de los iuslaboralistas, sino en deducciones y análisis economicistas (generalmente, erróneos). En 1984 a alguien se le ocurrió –pongo la mano en el fuego que tras asistir a no sé que foro de economistas- que la temporalidad creaba empleo: las consecuencias de ese monstruoso experimento con gaseosa aún las estamos pagando. Diez años después, se trataba de flexibilizar el contenido de la prestación laboral y para ello se impuso con mano de hierro –y contra la posición de los sindicatos- una reforma laboral que simplificaba y abarataba la salida y dotaba a los empleadores de mayores competencias para novar y modificar las condiciones de la prestación laboral, desde una perspectiva ajena al sinalagma contractual laboral, lo que determinó una evidente descompensación de fuerza entre empresarios y trabajadores y que la necesaria regulación de la flexibilidad como nuevo modelo productivo derivara en precarización. Y qué decir de las reformas de este milenio (que esta vez tienen el sustento de la lógica comunitaria tras el llamado Proceso de Lisboa, que nada tiene que ver con el tratado de la misma localidad), basadas en el apriorismo de “la-prestación-de-desempleo-afecta-negativamente-a-la-ocupación” –cuya máxima expresión es ese absurdo, ominoso y formalista “compromiso de empleo” recogido en la Ley General de la Seguridad Social- y el dogma “despedir-es-muy-caro-y-también-afecta-al-empleo”, aún vigente y que, de momento, ha comportado la supresión práctica de los salarios de tramitación y la rebaja de indemnizaciones en determinados supuestos de despidos para concretos contratos. Tampoco ninguna de esas medidas ha servido para crear empleo de calidad –todo lo contrario-. Y no podemos olvidar a la pobre Seguridad Social, con regulaciones prácticamente anuales siempre a la baja porque “está-económica-y-actuarialmente-demostrado-que-el-modelo-actual-es-insostenible”, según serios estudios, generalmente financiados desinteresadamente por entidades financieras, que anuncian el colapso del sistema para fechas concretas que luego –al devenir esas datas, cual Testigos de Jehová anunciado el fin del mundo- son postergadas. No deja de llamar la atención que esos estudios –que aparecen cada tres o cuatro meses- tengan un impacto mediático significativo, mientras que los medias prácticamente nada han dicho de la quiebra o minusvaloración de un montón de fondos privados de pensiones a raíz de la actual crisis económica.


Esta tendencia normativa ha tenido efectos devastadores sobre el Derecho del Trabajo: ha roto la solidaridad de los trabajadores, disgregando el colectivo asalariado (aunque ahora, al parecer, la culpa de esa disgregación es de la propia disciplina por sus tutelas), ha modificado el estatus quo del poder en el contrato de trabajo, dotando al empresario de mayores competencias y ha limitado la capacidad contractual del sindicato, lo que ha afectado seriamente su legitimación social como agente constitucional. Y lo que es peor: ninguna de esas medidas ha servido para adaptar el mercado de trabajo a la nueva realidad productiva y de prestación de servicios, ni para crear empleo de calidad.


Las sucesivas reformas laborales sólo han servido –y ruego disculpas por la radicalidad de la afirmación que, sin duda, matizaría si no me embargara el ardor expositivo- para vaciar de contenido el modelo de Estado social y democrático de Derecho. Esas mutaciones reguladoras han invertido el mandato constitucional de avanzar hacia la igualdad sustantiva entre los ciudadanos, han situado el derecho a la libre empresa por encima de otros derechos fundamentales más protegidos –como el de libertad sindical o huelga en relación con los de negociación colectiva y conflicto colectivo- (y no sólo en España, también en el ámbito europeo), han vaciado de contenido el derecho al trabajo limitándolo al acceso genérico e indeterminado al empleo, han obviado que la propiedad no es un derecho inmediato al estar condicionada por su uso social y han eliminado el principio de suficiencia de las prestaciones de Seguridad Social. A lo que añado, como juez, que también de alguna manera han afectado al derecho a la tutela judicial efectiva, al impedirse o limitarse en la práctica gran parte de las posibilidades de control judicial de determinadas prácticas empresariales, singularmente en materia de control de causalidad de los despidos.


Esa constante labor de zapa del Estado social y democrático de derecho se ha venido efectuando continuadamente por parte del legislador desde hace dos decenios y medio. Y, según algunos autores como Baylos y Pérez Rey, también la doctrina judicial –especialmente, la Sala de lo Social del TS- ha coadyuvado a ello. Con todo hay algo que me parece más grave: tampoco la negociación colectiva ha sido capaz de dar respuesta a esos envites en la línea de flotación constitucional. Me atrevería a afirmar, incluso, que ni tan siquiera ha servido para poner parches. En determinadas materias como el retroceso de la igualdad substantiva por la disgregación del colectivo de personas trabajadoras, los convenios colectivos y otras prácticas de negociación se han convertido en uno de los instrumentos más activos para crear desigualdad.


Si esta tendencia se sitúa en perspectiva histórica, la conclusión me parece evidente: al neoliberalismo rampante le “sobra” (porque ya no lo precisa, cautivo y desarmado el ejército rojo) la propia noción de Estado social y democrático de Derecho. ¿Para qué debe distribuir poderes, rentas y derechos ante un adversario notoriamente capitidismuido? (Debo advertir al lector que a estas alturas de mis reflexiones, mi alter ego marxista quiere hacer múltiples precisiones y matizaciones… sin embargo, como podrá comprobarse, estoy ya plenamente poseído por mi personalidad de jurista)


Y ese ataque al modelo constitucional sobre el que se erigió el gran pacto social del welfare (que la derecha considera vencido) ha tenido indudables consecuencias sociales, especialmente por lo que hace a la centralidad del trabajo como eje sobre el que se incardina la propia noción de ciudadanía. El trabajo, en efecto, ha pasado a ser algo “secundario” en nuestra sociedad, de tal manera que parece que el estatus de ciudadano vuelva a centrarse sobre la propiedad (lo que, por tanto, coadyuva a la negación del Estado social y democrático). Y todo ello aunque no exista históricamente ningún modelo de sociedad que no se halla articulado como tal a partir del valor “trabajo” (en su sentido amplio y no de dependencia capitalista, en matización que acepto, por la estridencia con que la formula, de mi personalidad marxista). La tendencia a negar la ciudadanía social articulada sobre ese valor deriva del famoso “capitalismo popular” tatcheriano. Lo curioso es cómo ese individualismo propietarista se ha acabado implementado en la propia mentalidad de los trabajadores. No es necesario acudir a estudios demoscópicos, basta –o mejor dicho, bastaba hasta la actual crisis- prestar oídos a cualquier conversación de currantes en un bar: muchas versaban sobre Euribor, créditos a bajo interés, nuevos modelos de vehículos, inversiones… La asunción acrítica del fetichismo de los bienes, como afirma, de nuevo gritando, mi alter ego marxista. Una buena prueba, por otra parte, de cómo la clase dominante impone su hegemonía social e ideológica –en una lógica gramsciana en la que suelen coincidir mis dos personalidades-.


Y ello va íntimamente unido desde mi punto de vista al sometimiento del capitalismo productivo al especulativo, de tal manera que el fin de la sociedad parece ser la simple especulación, en lugar de la creación de riqueza a través de las empresas y el trabajo. No me resisto a poner por escrito una anécdota que he contado verbalmente en múltiples ocasiones. Una dependienta de una tienda de electrodomésticos comenta con su compañera que ella está aquí “de momento”, porque el piso y el apartamento de sus padres “valen una pasta” que, en su día –se supone, a la muerte de sus mayores-, le proporcionarán suficientes rentas para vivir. Mientras tanto, tres clientes estamos intentando que la susodicha nos atienda –a la postre, con desgana-, una vez deje la cháchara con su colega.


No deja de ser llamativo que la llamada cultura del esfuerzo haya pasado a ser una reivindicación de la derecha. Sin duda que esa reclamación de clase debe ser traducida como: “trabajen ustedes más para que haya más productividad y seamos más competitivos… por tanto, nosotros ganemos más”. Sin embargo, no está de más recordar que el trabajo –es decir, la autoemancipación personal a través del mismo- ha formado parte del alma de la izquierda durante muchos años. Alguna reflexión cabrá hacer en relación al nuevo paradigma social postfordista y los valores sociales de las generaciones tecnológicas…


Y aquí toca, que lo valiente no quita lo cortés, volver sobre esa crítica a la negociación colectiva y su papel, antes efectuada, para matizarla. Crítica que, lógicamente, apuntaba sin miramientos al sindicato. Ciertamente no es fácil ejercer como organización de clase, cuando una buena parte de tus representados no tienen ya consciencia de clase. Quizás no es un disparate afirmar que el neoliberalismo ha sido capaz de engendrar el mayor aparato de alienación colectiva de las personas asalariadas nunca antes conocido bajo el capitalismo, en unos tiempos y en unas sociedades en los que paradójicamente el nivel de cultura general se ha incrementado exponencialmente y en el que la influencia de las religiones es cada vez menor. Y todo ello ante el silencio de la izquierda, incapaz durante todos estos años de crear una cultura alternativa sobre la que construir otra hegemonía social.


En ese triste panorama he venido ejerciendo como jurista durante un cuarto de siglo. En ese lapso temporal he visto cómo la fosa entre mi “deber ser” y el “ser” real se iba ampliando día tras día, cómo el desiderátum de los valores democráticos se ha ido pervirtiendo (cuando no se negaban esos propios valores democráticos integrales), cómo mi disciplina era acusada de ahistórica, cómo el trabajo dejaba de ser un elemento de centralidad social y cómo la consciencia social iba abandonando poco a poco los valores de civilidad colectivos para centrarse en el simple egoísmo del neodarwinismo social. Y todo ello ante la jocosa y socarrona mirada de mi alma marxista que, cuando estaba de buenas, me consolaba con la cínica frase: “tranquilo, ya llegará el ciclo de crisis”


Y, efectivamente, la crisis llegó.


Sin embargo, con la crisis mi desorientación se ha incrementado. Efectivamente, el modelo de crecimiento del neoliberalismo se ha estrellado, en lo que parece ser el mayor costalazo que conoce el capitalismo en cuatro generaciones.
Aunque los indicios del crack son muy anteriores, mediáticamente se ha concretado artificiosamente como fecha de salida de la misma el 15 de septiembre de 2008, con la famosa quiebra de Lehman Brothers (de la misma manera, que la “gran depresión” se concretó con el llamado “jueves negro” o la “crisis del petróleo” con la decisión de los países Árabes de la OPEP de no vender crudo a los países que apoyaron al Estado de Israel en la Guerra del Yom Kippur). Demos por buena, a efectos simplemente expositivos, esa fecha. Pues bien, ¿qué ha ocurrido a lo largo de este año? Podríamos considerar que, en parte, el discurso de la derecha se ha fragmentado: mientras un sector se ha enrocado en la lógica neoliberal (imputando la situación actual al mantenimiento de excesivos intervencionismos y negando cualquier responsabilidad –aún siendo obvia- de su ideología y práctica en este cuarto de siglo), otros se apuntan a tímidos intentos de poner orden en el sistema estableciendo determinadas limitaciones y regulaciones a la actuación del capital financiero, introduciéndose, además, aspectos relativos a la adaptación al cambio climático. A esta última tendencia parecen haberse apuntado Sarkozy, Merkel o el propio Obama (con matizaciones respecto a éste, porque ciertamente lo que dice es diferente). Y aunque en una primera etapa parecía que era éste último el sector triunfante –recuérdese las sucesivas cumbres de Londres y Nueva York-, en los últimos meses los fundamentalistas neoliberales están dando una dura batalla mediática y social (valgan como ejemplo, los argumentos salvajes relativos a la batalla actual en USA sobre la asistencia sanitaria) Eso sí: tirios y troyanos parecen coincidir en la necesidad de cambiar las reglas del mercado de trabajo, profundizando aún más en el rebaje de tutelas de las personas asalariadas, aunque es evidente que la actual situación de crisis no tiene ahí su origen. Pero, ya se sabe que el Pisuerga pasa por Paparanda…


Pero, ¿qué dicen las izquierdas? La respuesta es obvia: prácticamente nada.


La socialdemocracia, allí donde gobierna, como en España, se ajusta a la política de dar bandazos, generalmente aceptando la lógica del sector menos ortodoxo del neoliberalismo, pero sin una propuesta global más o menos articulada. Y, por su parte, la izquierda alternativa –en sus múltiples y lamentablemente enfrentadas visiones- se limita a culpar al capitalismo y al sistema de la crisis –lo que es obvio- y a reclamar que los efectos de ésta no caigan sobre las espaldas de los trabajadores –lo que es una evidente ingenuidad en el actual panorama de hegemonías de clase-, pero sin articular tampoco una propuesta global de futuro.
Y ello por no hablar del sindicalismo, aún prisionero de la cultura fordista y empeñado en reivindicar el cumplimiento del ya extinto pacto welfariano. Cada vez más a punto de que se le pase el arroz.


En todo caso, si uno mira las propuestas desestructuradas de las izquierdas y del sindicalismo ante el actual panorama lo llamativo es que todas ellas insisten en dos parámetros: por un lado, se meten a decirle al capitalismo cómo regular el funcionamiento del capital financiero (un ejemplo lo hallaremos en el documento de Die Linke –probablemente la organización europea con mayor capacidad de decir cosas nuevas- en sus propuestas frente a la crisis, que puede descargarse en inglés en:
http://die-linke.de/politik/aktuell/nachrichten/detail/zurueck/selected-news/artikel/on-the-financial-crisis/) ; por otro, se propugnan por todos parches puntuales en los mecanismos de cobertura social ante el desempleo.


Y es aquí donde surge el estupor del jurista que da título a estas disgregadas y desarticuladas reflexiones. En efecto, si la actual crisis es fruto de las políticas neoliberales que nos han llevado a la desvirtuación del concepto de Estado social y democrático de derecho, con obvios retrocesos en conquistas anteriores, parece obvio que, más allá de modificar el sistema financiero o ampliar desagregadamente tutelas, habrá que repensar desde la izquierda por dónde habrá que caminar en el futuro para desandar el camino trazado hacia atrás y seguir avanzando. Lo que ocurre es que ese camino ya no puede transitar por la vereda anterior, pues la orografía ha cambiado sensiblemente, de tal manera que donde antaño había un puente, ahora hay un abismo. En otras palabras, habrá que pensar cuál es el modelo alternativo de sociedad que la izquierda propone –la concreción del futuro Estado democrático y social de derecho-, situado de nuevo ante los cambios que se han producido en los últimos veinticinco años. Un modelo que se adapte al cambio del modelo productivo y al postfordismo, a los nuevos valores sociales de las gentes y que supere el régimen de tutelas anteriores.
Y mi yo-jurista –no así, el marxista- cree llegado el momento de reivindicar los valores integrales del derecho como orden alternativo. Un orden alternativo que desarrolle el concepto de fraternidad entre los ciudadanos y que, en consecuencia, suponga el reconocimiento por la sociedad del derecho de cada uno de ellos de desarrollar todas sus potencialidades humanas, con la dotación de medios suficientes. Y que, por tanto, supere el concepto de previsión social –o, incluso, de Seguridad Social- reconociendo en modo articulado todas las tutelas públicas o privadas como derecho de ciudadanía. Un orden alternativo que reivindique como eje de civilidad la igualdad, tanto en las relaciones de dependencia en el trabajo y de contenido del contrato –superando la ominosa subalternidad fordista-, desarrollando el ejercicio de los derechos fundamentales en las relaciones laborales, como entre el propio colectivo de personas asalariadas y dependientes del trabajo. Y, por supuesto, que tenga claro un concepto moderno de igualdad, que vaya más allá de la tradicional tabla rasa uniformizante y que sea eficaz en la lucha contra la discriminación.


Y también, un nuevo orden que supere los límites impuestos por el pacto welfariano al iuslaboralismo. Así, en relación con la articulación de mecanismos de tutela a escala internacional, de tal manera que las relaciones laborales sean tales y no simple paraesclavitud –superando el marco del Derecho del Trabajo en cada país, que el pacto comportó-, como respecto al fin del modelo de empresa autista, sin control societario de qué se produce y cómo se produce (rompiendo la lógica del ghetto del centro de trabajo que se incluyó implícitamente en el acuerdo de postguerras) Y todo ello ha de pasar por una revalorización del factor trabajo, como elemento individual para alcanzar mayores cotas de libertad y autoemancipación.


Por supuesto ese panorama debe comportar una nueva relación entre derecho y economía, de tal manera que aquél recobre su capacidad propositiva y reguladora, más allá de los intereses puntuales de ésta. Es obvio que el reconocimiento de derechos cuesta dineros –no soy tan ingenuo a mi edad como para pensar lo contrario-. Ocurre, sin embargo, que el método discursivo correcto pasa, primero, por la propuesta de derechos y luego, en función de los dineros que haya en caja, ver hasta dónde se puede llegar. Hemos vivido unos tiempos –y los seguimos viviendo en la actualidad- en que la lógica es la inversa: en función de los dineros se reconocen o no derechos.


De nada de eso se ha hablado en las cumbres de G-20 y G-8. Pero tampoco se habla –y eso es lo más grave- en el debate social.


Eso dice mi alma jurista. Y, por supuesto que esos apuntes son incompletos y probablemente erróneos. Pero lo que de verdad me aturde es que ese debate sobre el desarrollo democrático es hoy inexistente en las izquierdas, en el sindicalismo y en el mundo del iuslaboralismo.


Si la izquierda es incapaz de diseñar un modelo de sociedad alternativo, el resultado está servido: se limitará a ser el Pepito grillo de un orden injusto que seguirá centrando sobre la simple libertad individual y se irá apartando de los otros elementos –igualdad y fraternidad- que configuran la democracia. Y los juristas dedicados al Derecho del Trabajo nos convertiremos en unos simples componedores de las relaciones laborales en orden a la productividad y la competitividad.


Y acabo aquí en forma abrupta mis atolondradas reflexiones. No por nada: es que mis dos personalidades vuelven a estar a la greña.