18 October 2012

Democrazia e partecipazione nella crisi del sistema político


Riccardo Terzi, Segretario nazionale Spi-Cgil


La ricerca che viene qui presentata e discussa nasce da una precisa e urgente domanda politica: come rispondere alla crisi della democrazia. Io cercherò, con questa introduzione, di entrare direttamente nel vivo di questo nodo politico, non per forzare il senso e la portata del lavoro di ricerca, ma per metterlo alla prova, per verificarlo, per esplorare le potenzialità che esso ci può dischiudere.

Il lavoro che abbiamo svolto, con l’Ires Toscana e con l’Università di Firenze, è stato pensato, fin dall’inizio, come l’occasione per riaprire tutta la discussione sul futuro della nostra democrazia. E abbiamo scelto come campo di ricerca la Toscana, perché qui vediamo le tracce non ancora spente di una forte vitalità democratica, e perché soprattutto si è tentata una nuova sperimentazione legislativa, a sostegno di una democrazia partecipata, che sia capace di ricostruire una relazione feconda tra cittadini e istituzioni. Sta esattamente qui il punto in cui si sta consumando la crisi del nostro sistema politico, con tutti gli esiti traumatici che ne possono conseguire. La Toscana non è certo un’isola felice, e si trova anch’essa nel mezzo di una crisi globale che trascende le responsabilità dei poteri locali. Ma non è senza rilievo il fatto di cogliere la drammaticità di questa crisi e di cercare nuove possibili soluzioni.
Che di crisi si tratta, profonda e pervasiva, non c’è ormai quasi nessuno che lo possa negare. I dati di fatto sono di una evidenza assoluta: la crescita impetuosa dell’astensionismo elettorale, il discredito dei partiti, l’esplosione violenta dell’anti-politica, la lunga trafila degli episodi di corruzione, l’immagine ormai imperante di una “casta”, chiusa nella difesa arrogante dei suoi privilegi. C’è una vera e propria precipitazione della crisi, e non regge più l’idea che si tratti solo di episodi isolati, di responsabilità singole, essendo chiaro che è l’intero sistema politico – istituzionale ad essere messo in discussione. Per questo, dobbiamo evitare, io credo, di mettere in un unico sacco le diverse manifestazioni di protesta e di contestazione, bollandole con il marchio dell’antipolitica e del populismo. Non bisogna confondere le cause con gli effetti, e quello che si chiama genericamente “anti-politica” è sì un segno allarmante, l’indizio di una mutazione dello spirito pubblico che può provocare esiti del tutto distruttivi, ma tutto ciò non è che il riflesso di una situazione non più sostenibile.

Se ci limitiamo a dire anti-politica, diamo per scontata l’esistenza di un campo politico, perfettibile, come sempre, ma reale e funzionante, mentre è proprio questo presupposto che si sta dissolvendo. Sta nella politica stessa il cuore della crisi, nei suoi meccanismi, nel grande vuoto che essa ha prodotto, vuoto di idee, di progetti, di visione del futuro. È questa la tendenza generale, ormai da molti anni, il che non esclude l’esistenza di sforzi generosi per uscire da questo pantano. Ma resta il fatto che è il pantano ad aver vinto.

Per questo possiamo dire, analizzando freddamente i dati della realtà, che siamo entrati in una fase di crisi acuta del sistema. Il problema che è aperto, per tutti, con una urgenza assoluta, è quello di rendere visibile una nuova prospettiva. Di questo vorremmo parlare. Mentre la “pars destruens”, la denuncia di tutto ciò che non funziona, è un esercizio anche troppo facile, e c’è in proposito un’infinita produzione giornalistica, restano invece ancora nell’ombra i progetti di ricostruzione, le idee positive a cui affidare il nostro futuro.

Si apre qui un grande spartiacque, che ha al centro proprio il tema della democrazia: se la via di uscita dalla crisi richieda una qualche limitazione del metodo democratico, un tenere sotto controllo i suoi effetti di turbolenza e di instabilità, o se all’inverso l’operazione da compiere sia quella di una espansione coerente della democrazia, di un allargamento del suo campo di azione. Questa mi sembra essere l’alternativa decisiva che ci sta di fronte. Il vero scontro non è tra politica e anti-politica, ma tra sviluppo o limitazione della democrazia, tra la democrazia come risorsa o come impaccio.

Per cogliere l’esatta portata di questa dinamica, occorre scavare nella profondità dei processi reali, oltre la superficie, oltre le retoriche ufficiali, oltre l’immagine di una democrazia ormai vincente e dispiegata. L’attacco alla democrazia viene condotto per vie traverse, indirette, con un’azione molecolare che non agisce sui principi, ma sui meccanismi concreti, sui criteri di efficienza, sugli equilibri istituzionali. Il metro di misura con cui valutare tutto ciò mi sembra essere abbastanza semplice, in quanto si tratta di verificare il grado di approssimazione a quello che è il cuore dell’idea democratica: il diritto di tutti, senza esclusioni, a partecipare alla decisione politica, e l’estensione illimitata di questo metodo a tutti campi, senza aree protette, senza territori riservati solo agli addetti ai lavori. Tutti e tutto: la democrazia non è altro che questo processo di universalizzazione.

Se usiamo questo metro, che è l’unico davvero conforme all’idea democratica, allora risultano del tutto evidenti le strozzature, le limitazioni, e anche gli arretramenti che in questi anni si sono prodotti. Sono all’opera diverse forze che puntano a tenere la democrazia sotto tutela, a circoscriverne il campo d’azione, in nome di una qualche autorità superiore, in nome di valori e di principi che non sono negoziabili. Potremmo in questo caso usare l’espressione abusata dei “poteri forti”, proprio perché si tratta di poteri che non ammettono di poter essere messi in discussione dal processo democratico.

È nota la tesi per cui la democrazia, essendo per sua natura relativista, non può trovare in se stessa il suo fondamento, ed ha quindi bisogno di un’autorità esterna. Ed è questa tesi, dichiarata o sottintesa, che anima tutte le correnti conservatrici. Questo processo di restaurazione si snoda lungo tre diverse traiettorie, che tendono spesso a confluire, ad integrarsi l’una nell’altra.

C’è anzitutto la potenza ideologica delle religioni, che tendono ad affermarsi come l’unico possibile fondamento della comunità, come il deposito delle risorse morali che la tengono al riparo dalla disgregazione. La religione accetta la democrazia solo come un prodotto secondario, subordinato, mentre c’è un complesso di verità e di valori che non possono essere messi in discussione. Che si tratti del cristianesimo o dell’Islam, non ci sono, sotto questo profilo, molte differenze, se non di maggiore o minore flessibilità. Parlo qui dell’istituzione e non del sentimento religioso, che agisce spesso come una forza animatrice dei movimenti democratici. Si tratta di un’antica questione, mai del tutto risolta, ma che ha saputo trovare, in alcuni passaggi della nostra storia, un equilibrio accettabile, tenendo i due piani, quello religioso e quello politico, in un rapporto di distinzione e di reciproca autonomia. E tuttavia è evidente il riemergere aggressivo di movimenti integralisti, anche nel cuore dell’Europa.

Più  rilevante e più attuale è il secondo movimento, il quale consiste nell’idea e nella pratica tecnocratica, in nome di una presunta oggettività delle leggi economiche, per cui c’è un’unica soluzione, un'unica agenda possibile, e la democrazia si deve totalmente arrendere di fronte a questa necessità. Se Platone pensava ai filosofi, ai sapienti, ora è il momento dei tecnici, degli esperti, degli interpreti autorizzati del pensiero economico dominante.

È qui evidente come la democrazia venga radicalmente depotenziata, perché la dialettica politica è consentita solo all’interno di un perimetro rigidamente circoscritto, e se si azzarda a valicarlo, allora scatta l’intervento sanzionatorio delle superiori autorità economiche, a cui è stato delegato tutto il potere di regolazione. Insomma, c’è ormai una totale divaricazione tra le sedi della rappresentanza e le sedi del potere. Alla prima è lasciato solo il gioco del conflitto mediatico, dell’apparenza, dell’intrattenimento, delle parole dette in libertà, mentre i veri centri di potere stanno ormai altrove, fuori dal circuito democratico, e quindi irresponsabili, in quanto non devono rispondere che a se stessi e alla pressione dei mercati.

È assai indicativo il modo in cui, in un variegato arco di forze politiche, si pone il tema della cosiddetta “agenda Monti”, non come una delle possibili opzioni, ma come l’unica ancora di salvezza per l’Italia, come una scelta obbligata, imposta da una superiore necessità. Ciò vuol dire, per tutti coloro che sostengono questa tesi, che le prossime elezioni sono solo un rito superfluo, perché il nostro futuro è già scritto, e non ci sono alternative, non ci sono margini di scostamento da quell’unica necessaria traiettoria. Le domande sull’efficacia di questa politica e sulla sua equità, il dubbio che Monti non rappresenti la soluzione, ma piuttosto l’avvitamento della crisi in una spirale recessiva, tutto ciò viene escluso a priori, come l’intromissione degli eretici nel sacro recinto dell’ortodossia liberista. Nel momento in cui ogni alternativa viene esclusa, e tutto il discorso politico sembra parlare lo stesso linguaggio, è la democrazia che deperisce, perché essa ha bisogno di chiare alternative programmatiche. Se la sinistra si lascia ingabbiare in questa trappola, non può che finire nel repertorio degli enti inutili.

La terza tendenza è quella plebiscitaria, che si affida  alla figura carismatica del leader, nel quale si condensa lo spirito della nazione. Nella crisi delle culture politiche tradizionali, da più parti si è puntato su questo modello, sulla personalizzazione, su una competizione giocata tutta non sulle idee, ma sulla delega fiduciaria ad un capo, che diviene così il regolatore esclusivo di tutta la vita politica e istituzionale. Della democrazia sopravvive solo la parvenza, ma è chiaro che il risultato è una forma di potere arbitrario e autoritario. Se guardiamo bene, questa non è stata, nella nostra storia politica recente, un’eccezione, ma una tendenza generale, perché tutta l’infinita discussione sulle riforme istituzionali è stata guidata esclusivamente dall’assillo della governabilità, del rafforzamento della figura del premier e dei suoi poteri, dall’idea, in fondo, che il male dell’Italia stia in un eccesso di democrazia, e che sul piatto della bilancia debba finalmente prevalere il peso del principio di autorità.

Su tutti questi fronti la democrazia è messa in discussione. E queste diverse traiettorie tendono spesso ad incrociarsi, con una commistione di integralismo religioso, di dominio tecnocratico, e di populismo plebiscitario, dando vita così’ ad un fortissimo blocco di potere. Ora, questo blocco si sta sfaldando, per le sue interne contraddizioni e per l’esplosione di una acutissima questione morale. E quindi si possono aprire oggi nuovi varchi, si possono preparare nuove prospettive. Ma ciò richiede una sterzata molto netta e decisa rispetto alle tendenze fin qui prevalenti. Richiede un programma coerente e radicale di democratizzazione del sistema.

Democratizzazione è la parola giusta, perché essa indica che la democrazia è un processo, ed è un combattimento, è il lavoro incessante e mai concluso con il quale tutte le strutture di potere, in tutti i campi, e in qualsiasi regime politico, vengono sottoposte ad un severo vaglio critico, attivando tutti i possibili meccanismi di controllo, di partecipazione dal basso, di socializzazione delle decisioni. È questo un lavoro immenso, proprio perché, come già si è chiarito, le sedi della decisone si sono spostate e si sono automatizzate, dando vita a ristrettissime cerchie oligarchiche. E la globalizzazione, lasciata a se stessa, agisce come un fortissimo impulso verso una definitiva destrutturazione dei sistemi democratici.

Nella nostra storia politica passata, sono stati essenzialmente i grandi partiti di massa l’anello di congiunzione tra società civile e istituzioni, il canale in cui prende forma e si organizza la partecipazione democratica. Oggi non è più così, perché tutto il sistema dei partiti ha subito un’involuzione, e appare non come uno strumento al servizio dei cittadini, ma come una barriera, come una struttura chiusa, ripiegata su se stessa. Tralascio qui il tema, cruciale e assai arduo, di come si possa riqualificare e riformare il ruolo dei partiti politici. Ma è comunque chiaro che essi non possono più pretendere di essere l’esclusivo canale della partecipazione, e che la democrazia può oggi vivere solo se c’è una pluralità di soggetti, di momenti associativi, di strumenti, di sedi di confronto, senza che nessuno possa arrogarsi una sorta di monopolio della rappresentanza.

Ecco che allora si apre il campo vastissimo, e ancora largamente inesplorato, di una nuova democrazia partecipativa, che offra a tutti, cittadini singoli o associati, una possibilità concreta ed effettiva di accedere, secondo determinate procedure, al processo decisionale. La legge regionale della Toscana, è, in questa direzione, un passo importante. E noi chiediamo al governo regionale di procedere con coraggio e con coerenza lungo la linea che è stata intrapresa, così da costruire un nuovo modello di governo che possa essere un punto di riferimento per tutto il paese.

Il grande tema, da inscrivere dentro un processo di democratizzazione, è l’uso del territorio, le grandi scelte di pianificazione e di infrastrutturazione, oggi affidate troppo spesso ad una oscura trattativa tra poteri politici ed economici, e questa mancanza di trasparenza e di pubblicità apre il varco ai numerosi episodi di corruzione. È possibile democratizzare solo se c’è, contestualmente, un lavoro sistematico di informazione, di documentazione, per consegnare il potere di scelta a cittadini consapevoli, e per evitare di restare prigionieri di ondate emotive, localistiche, protestatarie, come è spesso accaduto. Per questo serve una procedura istituzionalizzata, servono regole, serve una democrazia organizzata, e non lasciata alla spontaneità. Come dice A. Sen, la scelta giusta è solo il punto di arrivo di un processo in cui tutti i diversi punti di vista sono riconosciuti e legittimati, a condizione di accettare il libero confronto e di essere aperti alle possibili mediazioni. In questo senso, la democrazia è il metodo che consente una decisione ragionata e ponderata.

Questo sviluppo di una democrazia partecipata, aperta a tutti i cittadini e a tutti i soggetti organizzati, pone anche al sindacato la necessità di un riposizionamento, perché non basta affermare il nostro ruolo negoziale, ma occorre promuovere un sistema allargato e plurale di partecipazione. Il sindacato è un soggetto rappresentativo di primaria importanza, e la sua “confederalità”, il suo essere sindacato generale, è una garanzia contro il rischio sempre incombente delle chiusure corporative. Ma, il sindacato è solo uno dei soggetti, che entra in un processo democratico più complesso, confrontandosi con altri attori, sociali e istituzionali. Questo, in fondo, è il senso del principio di sussidiarietà introdotto nella nostra Costituzione: l’interesse pubblico non è solo nelle mani dello Stato, ma c’è uno spazio per la libera iniziativa dei soggetti sociali. E il sindacato, in questo quadro, può allargare il suo campo di intervento e divenire un protagonista attivo, esercitando in modo del tutto trasparente la sua funzione di rappresentanza.
C’è un ultimo punto, quello più ostico, a cui non possiamo sfuggire. Quando parliamo di democratizzazione, in che misura riusciamo a coinvolgere in questo processo anche la sfera dell’economia e il sistema delle imprese? È solo il territorio il luogo possibile della partecipazione, e l’impresa non può che essere governata da un potere unilaterale, discrezionale, autoritario? La tendenza, come è’ noto, è verso un irrigidimento del sistema di impresa, verso una progressiva riduzione degli spazi di autonomia per i lavoratori, e verso un generale ridimensionamento dei loro diritti. Ma tutto ciò non è entrato nell’agenda politica. C’è solo il sindacato, e spesso solo la Cgil, a porsi il problema. Ma fin dove regge una democrazia partecipata, se viene escluso il momento del lavoro, che continua ad essere il luogo fondamentale dell’identità delle persone?

Impresa e territorio vanno visti insieme, nella loro relazione. E la battaglia per la democratizzazione non può agire a senso unico, ma deve investire tutta intera l’esperienza e la vita delle persone. Altrimenti, si approfondisce il senso di estraneità e di abbandono che attraversa gran parte del mondo del lavoro, lasciato a se stesso, senza visibilità politica, senza che nessuno si misuri con le nuove condizioni di sfruttamento e di alienazione. La nostra idea è che i diritti civili e i diritti sociali devono essere parte di un unico disegno, e che non c’è nessun avanzamento significativo se non sappiamo unificare questi due piani. Questo è oggi il nostro maggiore punto di fragilità.

Io mi limito, in questa sede, a indicare la necessità di questo lavoro di ricostruzione di una visione democratica unitaria, che lega insieme cittadinanza e lavoro, impresa e territorio, economia e politica. Su questo nodo continueremo a lavorare, mettendo insieme le competenze, le esperienze, in una visione unitaria e confederale dei compiti del sindacato. La ricerca, dunque, è per noi l’inizio di un impegno, e questo convegno, con il contributo autorevole delle persone che prenderanno la parola, ci può dare un’idea più chiara e consapevole del cammino da percorrere, per una democrazia che torni ad avere un significato nella vita concreta delle persone.

Firenze, 12 ottobre 2012

09 October 2012

AL TRIBUNAL CONSTITUCIONAL


AL TRIBUNAL CONSTITUCIONAL
(Texto del Recurso presentado por los grupos parlamentarios socialista y la izquierda plural)


Que en la representación que ostenta, por medio del presente escrito interpone Recurso de Inconstitucionalidad contra la LEY 3/2012, DE 6 DE JULIO, DE MEDIDAS URGENTES PARA LA REFORMA DEL MERCADO LABORAL, publicada en el Boletín Oficial del Estado, núm. 162 de 7 de julio de 2012, con arreglo a los siguientes:
I
HECHOS

Único.- Con fecha 7 de julio de 2012, se publico la Ley 3/2012, de 6 de julio, de medidas urgentes para la reforma del mercado laboral, que viene a reformar diversas normas laborales. En concreto, por considerar que están afectados de inconstitucionalidad, debemos destacar los siguientes preceptos: 
Artículo 3 (…)
4. Sin perjuicio de los procedimientos específicos que puedan establecerse en la negociación colectiva, la decisión de modificación sustancial de condiciones de trabajo de carácter colectivo deberá ir precedida en las empresas en que existan representantes legales de los trabajadores de un período de consultas con los mismos de duración no superior a quince días, que versará sobre las causas motivadoras de la decisión empresarial y la posibilidad de evitar o reducir sus efectos, así como sobre las medidas necesarias para atenuar sus consecuencias para los trabajadores afectados.
La intervención como interlocutores ante la dirección de la empresa en el procedimiento de consultas corresponderá a las secciones sindicales cuando éstas así lo acuerden, siempre que sumen la mayoría de los miembros del comité de empresa o entre los delegados de personal.
Durante el período de consultas, las partes deberán negociar de buena fe, con vistas a la consecución de un acuerdo. Dicho acuerdo requerirá la conformidad de la mayoría de los miembros del comité o comités de empresa, de los delegados de personal, en su caso, o de representaciones sindicales, si las hubiere, que, en su conjunto, representen a la mayoría de aquéllos.
En las empresas en las que no exista representación legal de los mismos, éstos podrán optar por atribuir su representación para la negociación del acuerdo, a su elección, a una comisión de un máximo de tres miembros integrada por trabajadores de la propia empresa y elegida por éstos democráticamente o a una comisión de igual número de componentes designados, según su representatividad, por los sindicatos más representativos y representativos del sector al que pertenezca la empresa y que estuvieran legitimados para formar parte de la comisión negociadora del convenio colectivo de aplicación a la misma.
En todos los casos, la designación deberá  realizarse en un plazo de cinco días a contar desde el inicio del periodo de consultas, sin que la falta de designación pueda suponer la paralización del mismo. Los acuerdos de la comisión requerirán el voto favorable de la mayoría de sus miembros. En el supuesto de que la negociación se realice con la comisión cuyos miembros sean designados por los sindicatos, el empresario podrá atribuir su representación a las organizaciones empresariales en las que estuviera integrado, pudiendo ser las mismas más representativas a nivel autonómico, y con independencia de la organización en la que esté integrado tenga carácter intersectorial o sectorial.
El empresario y la representación de los trabajadores podrán acordar en cualquier momento la sustitución del periodo de consultas por el procedimiento de mediación o arbitraje que sea de aplicación en el ámbito de la empresa, que deberá desarrollarse dentro del plazo máximo señalado para dicho periodo.
Cuando el periodo de consultas finalice con acuerdo se presumirá que concurren las causas justificativas a que alude el apartado 1 y solo podrá ser impugnado ante la jurisdicción competente por la existencia de fraude, dolo, coacción o abuso de derecho en su conclusión. Ello sin perjuicio del derecho de los trabajadores afectados a ejercitar la opción prevista en el párrafo segundo del apartado 3 de este artículo.
5. La decisión sobre la modificación colectiva de las condiciones de trabajo será notificada por el empresario a los trabajadores una vez finalizado el periodo de consultas sin acuerdo y surtirá efectos en el plazo de los siete días siguientes a su notificación.
Contra las decisiones a que se refiere el presente apartado se podrá reclamar en conflicto colectivo, sin perjuicio de la acción individual prevista en el apartado 3 de este artículo. La interposición del conflicto paralizará la tramitación de las acciones individuales iniciadas hasta su resolución”.
El Artículo 12. Modificación sustancial de condiciones de trabajo:
Uno. El artículo 41 del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores, aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1995, de 24 de marzo, queda redactado del siguiente modo:
«Artículo 41. Modificaciones sustanciales de condiciones de trabajo.
4. Sin perjuicio de los procedimientos específicos que puedan establecerse en la negociación colectiva, la decisión de modificación sustancial de condiciones de trabajo de carácter colectivo deberá ir precedida en las empresas en que existan representantes legales de los trabajadores de un período de consultas con los mismos de duración no superior a quince días, que versará sobre las causas motivadoras de la decisión empresarial y la posibilidad de evitar o reducir sus efectos, así como sobre las medidas necesarias para atenuar sus consecuencias para los trabajadores afectados.
La intervención como interlocutores ante la dirección de la empresa en el procedimiento de consultas corresponderá a las secciones sindicales cuando éstas así lo acuerden, siempre que sumen la mayoría de los miembros del comité de empresa o entre los delegados de personal.
Durante el período de consultas, las partes deberán negociar de buena fe, con vistas a la consecución de un acuerdo. Dicho acuerdo requerirá la conformidad de la mayoría de los miembros del comité o comités de empresa, de los delegados de personal, en su caso, o de representaciones sindicales, si las hubiere, que, en su conjunto, representen a la mayoría de aquéllos.
En las empresas en las que no exista representación legal de los mismos, éstos podrán optar por atribuir su representación para la negociación del acuerdo, a su elección, a una comisión de un máximo de tres miembros integrada por trabajadores de la propia empresa y elegida por éstos democráticamente o a una comisión de igual número de componentes designados, según su representatividad, por los sindicatos más representativos y representativos del sector al que pertenezca la empresa y que estuvieran legitimados para formar parte de la comisión negociadora del convenio colectivo de aplicación a la misma.
En todos los casos, la designación deberá  realizarse en un plazo de cinco días a contar desde el inicio del periodo de consultas, sin que la falta de designación pueda suponer la paralización del mismo. Los acuerdos de la comisión requerirán el voto favorable de la mayoría de sus miembros. En el supuesto de que la negociación se realice con la comisión cuyos miembros sean designados por los sindicatos, el empresario podrá atribuir su representación a las organizaciones empresariales en las que estuviera integrado, pudiendo ser las mismas más representativas a nivel autonómico, y con independencia de la organización en la que esté integrado tenga carácter intersectorial o sectorial.
El empresario y la representación de los trabajadores podrán acordar en cualquier momento la sustitución del periodo de consultas por el procedimiento de mediación o arbitraje que sea de aplicación en el ámbito de la empresa, que deberá desarrollarse dentro del plazo máximo señalado para dicho periodo.
Cuando el periodo de consultas finalice con acuerdo se presumirá que concurren las causas justificativas a que alude el apartado 1 y solo podrá ser impugnado ante la jurisdicción competente por la existencia de fraude, dolo, coacción o abuso de derecho en su conclusión. Ello sin perjuicio del derecho de los trabajadores afectados a ejercitar la opción prevista en el párrafo segundo del apartado 3 de este artículo.
5. La decisión sobre la modificación colectiva de las condiciones de trabajo será notificada por el empresario a los trabajadores una vez finalizado el periodo de consultas sin acuerdo y surtirá efectos en el plazo de los siete días siguientes a su notificación.
Contra las decisiones a que se refiere el presente apartado se podrá reclamar en conflicto colectivo, sin perjuicio de la acción individual prevista en el apartado 3 de este artículo. La interposición del conflicto paralizará la tramitación de las acciones individuales iniciadas hasta su resolución”.
El artículo 14. Negociación colectiva.
Uno. El apartado 3 del artículo 82 del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores, aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1995, de 24 de marzo, queda redactado como sigue:
«3. Los convenios colectivos regulados por esta Ley obligan a todos los empresarios y trabajadores incluidos dentro de su ámbito de aplicación y durante todo el tiempo de su vigencia.
Sin perjuicio de lo anterior, cuando concurran causas económicas, técnicas, organizativas o de producción, por acuerdo entre la empresa y los representantes de los trabajadores legitimados para negociar un convenio colectivo conforme a lo previsto en el artículo 87.1, se podrá proceder, previo desarrollo de un periodo de consultas en los términos del artículo 41.4, a inaplicar en la empresa las condiciones de trabajo previstas en el convenio colectivo aplicable, sea este de sector o de empresa, que afecten a las siguientes materias:
a) Jornada de trabajo.
b) Horario y la distribución del tiempo de trabajo. c) Régimen de trabajo a turnos.
d) Sistema de remuneración y cuantía salarial.
e) Sistema de trabajo y rendimiento.
f) Funciones, cuando excedan de los límites que para la movilidad funcional prevé el artículo 39 de esta Ley.
g) Mejoras voluntarias de la acción protectora de la Seguridad Social.
Se entiende que concurren causas económicas cuando de los resultados de la empresa se desprenda una situación económica negativa, en casos tales como la existencia de pérdidas actuales o previstas, o la disminución persistente de su nivel de ingresos ordinarios o ventas. En todo caso, se entenderá que la disminución es persistente si durante dos trimestres consecutivos el nivel de ingresos ordinarios o ventas de cada trimestre es inferior al registrado en el mismo trimestre del año anterior.
Se entiende que concurren causas técnicas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los medios o instrumentos de producción; causas organizativas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los sistemas y métodos de trabajo del personal o en el modo de organizar la producción, y causas productivas cuando se produzcan cambios, entre otros, en la demanda de los productos o servicios que la empresa pretende colocar en el mercado.
En los supuestos de ausencia de representación legal de los trabajadores en la empresa, éstos podrán atribuir su representación a una comisión designada conforme a lo dispuesto en el artículo 41.4.
Cuando el periodo de consultas finalice con acuerdo se presumirá que concurren las causas justificativas a que alude el párrafo segundo, y sólo podrá ser impugnado ante la jurisdicción social por la existencia de fraude, dolo, coacción o abuso de derecho en su conclusión. El acuerdo deberá determinar con exactitud las nuevas condiciones de trabajo aplicables en la empresa y su duración, que no podrá prolongarse más allá del momento en que resulte aplicable un nuevo convenio en dicha empresa. El acuerdo de inaplicación no podrá dar lugar al incumplimiento de las obligaciones establecidas en convenio relativas a la eliminación de las discriminaciones por razones de género o de las que estuvieran previstas, en su caso, en el Plan de Igualdad aplicable en la empresa. Asimismo, el acuerdo deberá ser notificado a la comisión paritaria del convenio colectivo.
En caso de desacuerdo durante el periodo de consultas cualquiera de las partes podrá someter la discrepancia a la comisión del convenio, que dispondrá de un plazo máximo de siete días para pronunciarse, a contar desde que la discrepancia le fuera planteada. Cuando no se hubiera solicitado la intervención de la comisión o ésta no hubiera alcanzado un acuerdo, las partes deberán recurrir a los procedimientos que se hayan establecido en los acuerdos interprofesionales de ámbito estatal o autonómico, previstos en el artículo 83 de la presente ley, para solventar de manera efectiva las discrepancias surgidas en la negociación de los acuerdos a que se refiere este apartado, incluido el compromiso previo de someter las discrepancias a un arbitraje vinculante, en cuyo caso el laudo arbitral tendrá la misma eficacia que los acuerdos en periodo de consultas y sólo será recurrible conforme al procedimiento y en base a los motivos establecidos en el artículo 91.
Cuando el periodo de consultas finalice sin acuerdo y no fueran aplicables los procedimientos a los que se refiere el párrafo anterior o estos no hubieran solucionado la discrepancia, cualquiera de las partes podrá someter la solución de la misma a la Comisión Consultiva Nacional de Convenios Colectivos cuando la inaplicación de las condiciones de trabajo afectase a centros de trabajo de la empresa situados en el territorio de más de una comunidad autónoma, o a los órganos correspondientes de las comunidades autónomas en los demás casos. La decisión de estos órganos, que podrá ser adoptada en su propio seno o por un árbitro designado al efecto por ellos mismos con las debidas garantías para asegurar su imparcialidad, habrá de dictarse en plazo no superior a veinticinco días a contar desde la fecha del sometimiento del conflicto ante dichos órganos. Tal decisión tendrá la eficacia de los acuerdos alcanzados en periodo de consultas y sólo será recurrible conforme al procedimiento y en base a los motivos establecidos en el artículo 91.
El resultado de los procedimientos a que se refieren los párrafos anteriores que haya finalizado con la inaplicación de condiciones de trabajo deberá ser comunicado a la autoridad laboral a los solos efectos de depósito.»
Dos. El apartado 1 del artículo 84 del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores, aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1995, de 24 de marzo, queda redactado del siguiente modo:
«1. Un convenio colectivo, durante su vigencia, no podrá ser afectado por lo dispuesto en convenios de ámbito distinto salvo pacto en contrario, negociado conforme a lo dispuesto en el apartado 2 del artículo 83, y salvo lo previsto en el apartado siguiente.»
Tres. El apartado 2 del artículo 84 del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores, aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1995, de 24 de marzo, queda redactado como sigue:
«2. La regulación de las condiciones establecidas en un convenio de empresa, que podrá negociarse en cualquier momento de la vigencia de convenios colectivos de ámbito superior, tendrá prioridad aplicativa respecto del convenio sectorial estatal, autonómico o de ámbito inferior en las siguientes materias:
a) La cuantía del salario base y de los complementos salariales, incluidos los vinculados a la situación y resultados de la empresa.
b) El abono o la compensación de las horas extraordinarias y la retribución específica del trabajo a turnos.
c) El horario y la distribución del tiempo de trabajo, el régimen de trabajo a turnos y la planificación anual de las vacaciones.
d) La adaptación al ámbito de la empresa del sistema de clasificación profesional de los trabajadores.
e) La adaptación de los aspectos de las modalidades de contratación que se atribuyen por la presente Ley a los convenios de empresa.
f) Las medidas para favorecer la conciliación entre la vida laboral, familiar y personal.
g) Aquellas otras que dispongan los acuerdos y convenios colectivos a que se refiere el artículo 83.2.
Igual prioridad aplicativa tendrán en estas materias los convenios colectivos para un grupo de empresas o una pluralidad de empresas vinculadas por razones organizativas o productivas y nominativamente identificadas a que se refiere el artículo 87.1.
Los acuerdos y convenios colectivos a que se refiere el artículo 83.2 no podrán disponer de la prioridad aplicativa prevista en este apartado.»
El artículo 18:
Tres. El artículo 51 del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores, aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1995, de 24 de marzo, queda redactado como sigue:
«Artículo 51. Despido colectivo.
1. A efectos de lo dispuesto en la presente Ley se entenderá por despido colectivo la extinción de contratos de trabajo fundada en causas económicas, técnicas, organizativas o de producción cuando, en un período de noventa días, la extinción afecte al menos a:
a) Diez trabajadores, en las empresas que ocupen menos de cien trabajadores.
b) El 10 por ciento del número de trabajadores de la empresa en aquéllas que ocupen entre cien y trescientos trabajadores.
c) Treinta trabajadores en las empresas que ocupen más de trescientos trabajadores. Se entiende que concurren causas económicas cuando de los resultados de la empresa se desprenda una situación económica negativa, en casos tales como la existencia de pérdidas actuales o previstas, o la disminución persistente de su nivel de ingresos ordinarios o ventas. En todo caso, se entenderá que la disminución es persistente si durante tres trimestres consecutivos el nivel de ingresos ordinarios o ventas de cada trimestre es inferior al registrado en el mismo trimestre del año anterior.
Se entiende que concurren causas técnicas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los medios o instrumentos de producción; causas organizativas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los sistemas y métodos de trabajo del personal o en el modo de organizar la producción y causas productivas cuando se produzcan cambios, entre otros, en la demanda de los productos o servicios que la empresa pretende colocar en el mercado.
Se entenderá igualmente como despido colectivo la extinción de los contratos de trabajo que afecten a la totalidad de la plantilla de la empresa, siempre que el número de trabajadores afectados sea superior a cinco, cuando aquél se produzca como consecuencia de la cesación total de su actividad empresarial fundada en las mismas causas anteriormente señaladas.
Para el cómputo del número de extinciones de contratos a que se refiere el párrafo primero de este apartado, se tendrán en cuenta asimismo cualesquiera otras producidas en el período de referencia por iniciativa del empresario en virtud de otros motivos no inherentes a la persona del trabajador distintos de los previstos en el artículo 49.1.c) de esta Ley, siempre que su número sea, al menos, de cinco.
Cuando en períodos sucesivos de noventa días y con el objeto de eludir las previsiones contenidas en el presente artículo, la empresa realice extinciones de contratos al amparo de lo dispuesto en el artículo 52.c) de esta Ley en un número inferior a los umbrales señalados, y sin que concurran causas nuevas que justifiquen tal actuación, dichas nuevas extinciones se considerarán efectuadas en fraude de ley, y serán declaradas nulas y sin efecto”.
(…) Ocho. El apartado 2 del artículo 56 del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores, aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1995, de 24 de marzo, queda redactado del siguiente modo:
«2. En caso de que se opte por la readmisión, el trabajador tendrá derecho a los salarios de tramitación. Estos equivaldrán a una cantidad igual a la suma de los salarios dejados de percibir desde la fecha de despido hasta la notificación de la sentencia que declarase la improcedencia o hasta que hubiera encontrado otro empleo, si tal colocación fuera anterior a dicha sentencia y se probase por el empresario lo percibido, para su descuento de los salarios de tramitación.»

El Artículo 23. De las modalidades procesales.

Uno. El apartado 1 del artículo 110 de la Ley 36/2011, de 10 de octubre, Reguladora de la Jurisdicción Social, queda redactado del siguiente modo:
«1. Si el despido se declara improcedente, se condenará al empresario a la readmisión del trabajador en las mismas condiciones que regían antes de producirse el despido, así como al abono de los salarios de tramitación a los que se refiere el apartado 2 del artículo 56 del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores o, a elección de aquél, a que le abone una indemnización, cuya cuantía se fijará de acuerdo con lo previsto en el apartado 1 del artículo 56 de dicha Ley, con las siguientes particularidades:
a) En el acto de juicio, la parte titular de la opción entre readmisión o indemnización podrá anticipar su opción, para el caso de declaración de improcedencia, mediante expresa manifestación en tal sentido, sobre la que se pronunciará el juez en la sentencia, sin perjuicio de lo dispuesto en los artículos 111 y 112.
b) A solicitud de la parte demandante, si constare no ser realizable la readmisión, podrá  acordarse, en caso de improcedencia del despido, tener por hecha la opción por la indemnización en la sentencia, declarando extinguida la relación en la propia sentencia y condenando al empresario a abonar la indemnización por despido, calculada hasta la fecha de la sentencia.
c) En los despidos improcedentes de trabajadores cuya relación laboral sea de carácter especial, la cuantía de la indemnización será la establecida, en su caso, por la norma que regule dicha relación especial
La Disposición adicional tercera. Aplicación del artículo 47 del Estatuto de los Trabajadores en el Sector Público:
Se añade una disposición adicional vigésima primera al Texto Refundido del Estatuto de los Trabajadores aprobado por Real Decreto Legislativo 1/1995, de 24 de marzo con el siguiente contenido:
«Lo previsto en el artículo 47 de esta Ley no será de aplicación a las Administraciones Públicas y a las entidades de derecho público vinculadas o dependientes de una o varias de ellas y de otros organismos públicos, salvo a aquellas que se financien mayoritariamente con ingresos obtenidos como contrapartida de operaciones realizadas en el mercado



Y la Disposición final cuarta:
Dos. La disposición adicional décima del Texto Refundido de la Ley del Estatuto de los Trabajadores, aprobado por Real Decreto Legislativo 1/995, de 24 de marzo, queda redactada en los siguientes términos:
«Disposición adicional décima. Cláusulas de los convenios colectivos referidas al cumplimiento de la edad ordinaria de jubilación.
Se entenderán nulas y sin efecto las cláusulas de los convenios colectivos que posibiliten la extinción del contrato de trabajo por el cumplimiento por parte del trabajador de la edad ordinaria de jubilación fijada en la normativa de Seguridad Social, cualquiera que sea la extensión y alcance de dichas cláusulas

II
PRESUPUESTOS PROCESALES

1. Jurisdicción y competencia. La tiene ese Tribunal Constitucional de conformidad con lo dispuesto en el artículo 161.1. a) CE y en el artículo 2.1. a) de la Ley Orgánica 2/1979, de 3 de octubre de 1979, del Tribunal Constitucional (a partir de ahora, LOTC), en cuanto se impugna una ley.

La competencia para conocer del recurso corresponde de conformidad con el artículo 10.b) LOTC, al Tribunal en Pleno.

2. Admisibilidad del recurso de inconstitucionalidad. El presente recurso es admisible de acuerdo con lo previsto en el artículo 31 LOTC, toda vez que la disposición que se recurre ha sido publicada íntegramente en el Boletín Oficial del Estado número  162, de 7 de julio de 2012.

3. Legitimación activa de los que ejercitan el recurso. Los Diputados otorgantes del poder que acompaño a este escrito cuentan con legitimación activa a tenor de los artículos 162 CE y 32.1. c) LOTC.

Los Diputados que ejercitan el recurso actúan representados por Procurador de los Tribunales, al amparo del artículo 81 LOTC.

4. Formulación en plazo del recurso. El presente recurso se formula dentro del plazo legal de 3 meses a contar desde la publicación oficial del mismo el 7 de julio de 2012.

5. Objeto del recurso. La Ley 3/2012, de 6 de julio, de medidas urgentes para la reforma del mercado laboral.

6. Pretensión que se deduce. Al amparo de los artículos 27.1 y 2.b) y 39 LOTC se ejercita en este recurso la pretensión de declaración por ese Tribunal Constitucional, con los efectos legalmente predeterminados, de la disconformidad con la Constitución y, por tanto, de la inconstitucionalidad de los artículos 4.3; 12.Uno; 14. Uno y Dos; 18. Tres; 18.Ocho; 23.Uno; Disposición adicional tercera y Disposición final cuarta.Dos de la Ley 3/2012, de 6 de julio, de medidas urgentes para la reforma del mercado laboral. 

III

FUNDAMENTOS JURÍDICOS

1.- Planteamiento constitucional general y motivos de inconstitucionalidad.

La definición de España, en términos estructurales ("España se constituye..."), como un "Estado social y democrático de derecho", contenida en el frontispicio mismo del texto constitucional (art.1.1), impregna y da sentido a toda nuestra Ley Suprema. Y no lo hace como una mera declaración de principios, sin valor jurídico, sino como una prescripción -la primera de ellas- integrada en una verdadera norma jurídica o conjunto normativo, el de superior rango y valor del Ordenamiento.
No haría falta recordar y hacer valer esta consideración, por lo demás obvia en la doctrina y jurisprudencia constitucionales, si la norma recurrida no nos obligara a ello para valorar globalmente su adecuación al conjunto de mandatos constitucionales y para, así, enmarcar las diversas infracciones de la Constitución en que incurre, y que, al margen de su justificación concreta, en las que más adelante abundaremos, traen causa del aparentemente deliberado, y en todo caso muy evidente, desconocimiento del marco estructural y axiológico en el que nuestra Constitución se inserta, el que le sirve de parámetro interpretativo, además de límite o sustento habilitador, según los casos, a la acción legislativa.
Sabido es que la fórmula del Estado social y democrático de derecho, que identifica al constitucionalismo que surge después de la segunda guerra mundial en Europa y que llega hasta nuestros días, integra una triple cláusula que adquiere sentido en su interacción recíproca y no en su mera yuxtaposición. El Estado Social no se entiende sin el Estado de derecho y el Estado democrático, ni estos últimos no interconectados entre sí y con aquél. Del mismo modo, en los valores, derechos e instituciones que la Constitución reconoce hay presentes elementos de las tres cláusulas sin que sea posible amputar alguno de ellos, a riesgo de quebrantar la voluntad del constituyente y el propio sentido del texto constitucional.
El Estado Social ha abierto las puertas a la incorporación al constitucionalismo contemporáneo de derechos y libertades de titularidad colectiva, hasta entonces no identificados ni reconocidos, para la protección y defensa de intereses que sólo alcanzan entidad real mediante su ejercicio colectivo.
Y ese mismo Estado Social se ha definido, singularmente, por dar relevancia constitucional al trabajo: como factor que identifica el principal medio de la socialidad, y como bien que, tanto cuando se dispone de él en abundancia como cuando se convierte en bien escaso, proporciona a la mayoría de los ciudadanos su instrumento de vida y se convierte, así, en condición real para el ejercicio de todos sus derechos y libertades fundamentales, tanto en el ámbito propio de la relación de trabajo como en la expresión de su condición de ciudadano.
En concreto, el Estado Social comporta el respeto a una determinada posición, la que el mismo texto constitucional establece y ampara, de los interlocutores sociales (art. 7), y el reconocimiento en su favor del derecho fundamental a la negociación colectiva (art. 37) que, junto a las libertades sindicales y de huelga (art. 28), se erigen en un baluarte para la defensa de los derechos e intereses de los trabajadores, un baluarte constitucional, indisponible, que se proyecta sobre el derecho al trabajo y sobre las condiciones mínimas en que ese trabajo puede y debe prestarse.
La centralidad de este planteamiento en el modelo constitucional vigente ha hecho que el Estado haya mantenido una constante actividad normativa en desarrollo de las previsiones constitucionales relacionadas con las relaciones de trabajo, que, por la trascendencia social de las mismas, incide directa y decisivamente en la ordenación de una relación jurídica típicamente privada.
En esa actividad, no ha sido anómalo el recurso al Real Decreto-ley para atender necesidades urgentes y extraordinarias de adecuación de la legislación laboral a las cambiantes circunstancias económicas y/o para evitar comportamientos fraudulentos dirigidos a burlar las nuevas previsiones legales previstas durante el proceso de aprobación de legislación ordinaria.
Pero el recurso a este instrumento se ha visto atemperado hasta ahora por la autolimitación del legislador extraordinario en el alcance de las modificaciones decididas y, singularmente, por el procedimiento seguido para adoptarlas: el diálogo social, la negociación con los interlocutores sociales (organizaciones empresariales y sindicatos de trabajadores) dotados de especial relevancia constitucional.
Así se ha hecho hasta ahora desde la promulgación del Estatuto de los Trabajadores por la Ley 8/1980, de 10 de marzo, primera de las normas que adecuaron nuestro ordenamiento laboral al texto constitucional. En todos los casos, el proceso de diálogo con los interlocutores sociales se ha convertido en pauta de comportamiento con independencia de que haya cristalizado o no en acuerdo y con independencia de que, fracasado éste, el legislador extraordinario haya ejercido finalmente sus obligaciones y sus competencias.
Pues bien, cuando una norma, que supone -como toda la literatura sostiene ya- una profunda transformación, en sus diversas dimensiones, de nuestro Derecho del trabajo, se gesta desdeñando la posición de los interlocutores sociales que habían alcanzado un acuerdo entre si sobre buena parte de los temas objeto de la reforma legislativa, forzando los límites del Decreto-ley y, aunque solventadas las insuficiencias de éste por la Ley 3/2012, de 6 de julio, de medidas urgentes para la reforma del mercado laboral (en adelante, Ley 3/2012) lesionando derechos concretos de los trabajadores, se sitúa fuera del marco de nuestro Estado social y democrático de derecho, se sitúa fuera de la Constitución.
La Constitución de 1978 no deja al legislador las manos libres para irrumpir en el mercado de trabajo, en el que los ciudadanos se juegan no sólo sus necesidades económicas sino más ampliamente su recognoscibilidad social, y proyectarse sobre él ignorando las propias prescripciones y condicionamientos constitucionales. Prescripciones y condicionamientos que tienen que ver con un modelo de relaciones socio-laborales que busca el equilibrio, el diálogo y la integración de posiciones contradictorias. Porque éste y no otro es el modelo constitucional, y éste y no otro es el modelo que, por vez primera de un modo tan notorio, el legislador de la reforma laboral quebranta.
Dentro de la Constitución caben, sin duda, y así ha acontecido en nuestra historia constitucional, desde 1978, regulaciones diversas de las instituciones del Derecho del trabajo; lo que no cabe, lo que queda constitucionalmente vedado al legislador, es sustituir los elementos centrales del modelo constitucional, cobijados bajo diversos tipos normativos (derechos, mandatos, límites, principios...), por otros distintos. Cuando así se actúa, como es el caso, el producto normativo en cuestión nace al mundo del Derecho fuera de las coordenadas constitucionales. Nunca fue tan evidente respecto de una regulación jurídica-laboral y, por ello, a nuestro juicio, tan coherentes resultan entre sí también las diversas infracciones de la Constitución en las que la norma recurrida incurre.
Por tanto, a nuestro juicio, la decisión del legislador de ignorar de partida nuestro modelo de relaciones laborales, modelo consecuente con la fórmula del Estado Social y democrático de Derecho, no podía sino saldarse con inconstitucionalidades evidentes que a continuación se describen y que deben ser reparadas por quien tiene la exclusiva facultad de hacerlo. 
Una reparación, por otra parte, que merecería recibir trato de urgencia en la medida en que la reforma laboral definitivamente aprobada por la Ley 3/2012, de 6 de julio, produce efectos tan graves sobre derechos individuales de los trabajadores y sobre el modelo constitucional de libertad sindical y de negociación colectiva que la eventual aceptación de la tacha de inconstitucionalidad que aquí se defiende hará irreversibles sus efectos si se demora en exceso en el tiempo.
La inconstitucionalidad alegada afecta esencialmente a tres bloques de materias y correlativa lesión de derechos constitucionales que son los siguientes: vulneración de la negociación colectiva, con afectación singularizada de los artículos 7, 28.1, 37.1 y 24 de la Constitución; vulneración del derecho al trabajo, con conexión en el derecho a la tutela judicial efectiva, con afectación singularizada en los artículos 35.1 y 24 de la Constitución; y principio de igualdad y prohibición de tratamientos discriminatorios, con afectación singularizada de los artículos 14, 23 y 103.3 de la Constitución.

2. Inconstitucionalidad del artículo 14.Uno de la Ley 3/2012, de 6 de julio, por vulneración de los artículos 37.1 en relación con los artículos 28.1 y 24 de la Constitución.


El artículo 14.Uno de la Ley 3/2012, de 6 de julio, modifica el artículo 82.3 del Estatuto de los Trabajadores, atribuyendo a la Comisión Consultiva Nacional de Convenios Colectivos o a los órganos correspondientes de las Comunidades Autónomas de la facultad de acordar la inaplicación de lo pactado por las representaciones de trabajadores y empresarios a través de convenio colectivo; con ello vulnera el reconocimiento constitucional de la fuerza vinculante de los convenios colectivos (art. 37.1 CE), el ejercicio de la actividad sindical garantizado a través del reconocimiento constitucional de la libertad sindical (art. 28.1 CE), así como el derecho a la tutela judicial efectiva (art. 24 CE).
El texto constitucional, al reconocer el derecho a la negociación colectiva, establece de manera específica una garantía de efectivo cumplimiento de lo pactado por las representaciones de los trabajadores y empresarios a través de la atribución al contenido de los convenios colectivos de su necesaria “fuerza vinculante”: “La Ley garantizará el derecho a la negociación colectiva laboral entre los representantes de los trabajadores y empresarios, así como la fuerza vinculante de los convenios” (art. 37.1 CE). La Constitución ha considerado de especial significación el reforzamiento de la vinculabilidad jurídica de la presente regla de la fuerza vinculante del convenio colectivo. Se refuerza de esta manera, con especial contundencia y de manera expresa, el principio del pacta sunt servanda de los convenios colectivos, como contratos, elevando a rango constitucional una regla que para el resto de los contratos privados permanece residenciada en el ámbito de la legislación ordinaria. Dicho de otro modo, a diferencia de lo que sucede para la generalidad de la contratación civil, donde el principio del pacta sunt servanda se considera suficientemente tutelado a través de la legislación ordinaria, el constituyente estima de mayor necesidad la garantía del cumplimiento de los convenios colectivos, a través de la consagración de un pacta servanda colectivo con rango constitucional a través de la atribución de fuerza vinculante a los convenios colectivos. A pesar de que el texto constitucional prevé una intermediación legal a estos efectos, en la medida en que la redacción del artículo 37.1 CE se dirige al legislador, para que sea éste quien garantice la mencionada fuerza vinculante (“la ley garantizará…), el mandato establecido al respecto es directo e incondicionado, en términos tales que al legislador ordinario no le cabe discrecionalidad alguna en orden al establecimiento de una mayor o menor intensidad en esta garantía y, por tanto, de los instrumentos jurídicos de aseguramiento formal y material de la mencionada fuerza vinculante de los convenios colectivos. Tan es así, que cabe afirmar con toda rotundidad que una lesión a la fuerza vinculante del convenio colectivo afecta al contenido esencial del derecho a la negociación colectiva, tal como el mismo viene reconocido constitucionalmente (STC 25/2001). Más aún, en la medida en que constituye jurisprudencia consolidada del Tribunal Constitucional que la negociación colectiva forma parte de la acción sindical de las organizaciones sindicales (por todas, SsTC 4/1983, de 28 de enero, 73/1984, de 27 de junio, 98/1985, de 29 de julio, 187/1987, de 24 de noviembre, 9/1988, de 25 de enero, 51/1988, de 22 de marzo, 127/1989, de 13 de julio, 30/1992, de 18 de marzo, 105/1992, de 1 de julio, 164/1993, de 18 de mayo, 121/2001, de 4 de junio, 225/2001, de 26 de noviembre, 238/2005, de 26 de septiembre), una lesión a la fuerza vinculante de los convenios colectivos negociados de manera directa o indirecta por las organizaciones sindicales constituye, en igual medida y por efecto reflejo, una lesión al contenido esencial de la libertad sindical consagrada constitucionalmente como derecho fundamental y libertad pública a través del artículo 28.1 de la Constitución.
Precisamente la mencionada fuerza vinculante queda trasladada al ámbito de la legislación ordinaria a través del párrafo primero del artículo 82.3 del Estatuto de los Trabajadores, cuando el mismo establece que: “Los convenios colectivos regulados por esta Ley obligan a todos los trabajadores y empresarios incluidos dentro de su ámbito de aplicación y durante todo el tiempo de su vigencia”. Esta es la razón por la que el mecanismo de la inaplicación del convenio colectivo que se contempla a continuación se presenta como una excepción a la fuerza vinculante de los convenios colectivos; tan es así que el arranque de la regulación legal del procedimiento de inaplicación hace expresa advertencia de que el citado mecanismo rompe de principio con la regla establecida en el citado párrafo primero, cuando encabeza la redacción afirmando que “sin perjuicio de lo anterior”.
Es cierto que el mencionado primer párrafo del artículo 82.3 del Estatuto de los Trabajadores incorpora tanto la regla de la fuerza vinculante del convenio colectivo como la adicional regla de la eficacia general del convenio colectivo, en términos tales que, como ha afirmado el propio Tribunal Constitucional, mientras que la primera (la fuerza vinculante) deriva directamente de la Constitución (SsTC 58/1985, de 30 de abril, 179/1989, de 2 de noviembre, 151/1994, de 23 de mayo) la segunda de ellas (la eficacia general) es un plus añadido por el legislador ordinario (SsTC 4/1983, de 28 de enero, 12/1983, de 22 de febrero, 73/1984, de 27 de junio, 98/1985, de 29 de julio). En todo caso, a los efectos del contraste de constitucionalidad que nos interesa destacar, lo decisivo es que el procedimiento de descuelgue de condiciones pactadas en convenio colectivo al que nos venimos refiriendo no se presenta como excepción a la eficacia general sino directamente como exclusión de la inicial fuerza vinculante de lo pactado en el correspondiente convenio colectivo; dicho de otro modo, la inaplicación no provoca sólo el efecto de excluir el cumplimiento del convenio colectivo para los no afiliados al sindicato firmante del convenio colectivo (circunstancia que sólo incidiría sobre la eficacia general), sino de manera generalizada para todos los trabajadores de la correspondiente empresa con independencia de cuál sea su situación afiliativa, por lo que insistimos afecta de forma inmediata a la fuerza vinculante del convenio colectivo.
Sin lugar a dudas, ningún derecho constitucional tiene el carácter de absoluto, sino que el mismo queda enmarcado en el conjunto de los derechos e intereses legítimos protegidos constitucionalmente, lo que presupone la posibilidad de establecer ciertos límites o condicionamientos a la fuerza vinculante de lo pactado en convenio colectivo. Sin ir más lejos, lo pactado en convenio colectivo debe atenerse a la legalidad vigente, de modo que su contenido debe ser plenamente respetuoso con la normativa estatal establecida en materia laboral; por ello dirá la legislación ordinaria que los negociadores podrán pactar lo que estimen oportuno “dentro del respeto a las leyes” (art. 85.1 Estatuto de los Trabajadores). Eso sí, como contrapunto, alcanzado el acuerdo del convenio dentro de ese respeto a las leyes, se ha de respetar a su vez escrupulosamente el mandato constitucional de garantía de la fuerza vinculante de los convenios colectivos. Como afirma la doctrina del Tribunal Constitucional, “el art. 37.1 CE reconoce el derecho a la negociación colectiva y garantiza la eficacia vinculante del convenio colectivo, encomendando al legislador de manera imperativa garantizarla, de modo que la facultad normativa de las partes sociales encuentra su reconocimiento jurídico en la propia Constitución y a la regulación que el Estado establezca” (STS 92/1992, de 11 de junio; con anterioridad STC 58/1985, de 30 de abril).
Todavía a efectos dialécticos podríamos aceptar que se podría contemplar una situación que exigiese proceder a la inaplicación de lo pactado en convenio colectivo, por concurrir razones de orden superior que así lo justificasen. Tal es así, que se consideran plenamente correctas y conformes al texto constitucional las versiones precedentes a la introducidas por la Ley 3/2012 que incorporaban un procedimiento de inaplicación del convenio colectivo, mientras que es la novedad ahora introducida de atribuir a instancias de la dirección de la empresa la facultad resolutoria a la Comisión Consultiva u organismo correspondiente de las Comunidades Autónomas la que comporta traspasar los límites de lo aceptable constitucionalmente, pues no concurren esas  hipotéticas razones de orden superior que justificarían la introducción de una excepción singularizada a la fuerza vinculante de los convenios colectivos. Dicho de otro modo, mientras que el presente recurso no pone objeción alguna a las fases previas de posible adopción del acuerdo de inaplicación del convenio colectivo, sí que observa una manifiesta tacha de inconstitucionalidad en la última de las fórmulas de inaplicación consistente en la atribución de la facultad unilateral de resolución a la Comisión Consultiva o a los organismos correspondientes de las Comunidades Autónomas. Entre las tres primeras fases contempladas legalmente y la última de ellas se presenta una diferencia cualitativa de raíz, que las configura jurídicamente con una diversidad de esencia. En efecto, mientras que en las tres primeras fases la decisión inaplicativa, directa o indirectamente, viene atribuida a los propios sujetos que negociaron el convenio colectivo de referencia o bien a otros sujetos colectivos con legitimación para negociar un convenio colectivo en el ámbito de la empresa en la que se produce la inaplicación convencional, en este caso, el mecanismo se pone en marcha por iniciativa de una sola de las partes (“cualquiera de las partes” dice la redacción del precepto), que en la práctica es la atribución a la sola iniciativa del empleador pues es éste de facto el único interesado en la inaplicación convencional en atención a las causas justificativas contempladas al respecto legalmente y, sobre todo, decidido por un organismo público ajeno sin contar con el compromiso arbitral previo de las partes en desacuerdo. Dicho de otro modo, mientras que las tres primeras fases de la inaplicación se mantienen en la esfera del respeto a la autonomía negocial de los sujetos legitimados para negociar un convenio colectivo, en este caso se sitúa en un terreno ajeno, donde terceros ajenos a la mencionada autonomía negocial adoptan el acuerdo de inaplicación de lo pactado en convenio colectivo. El propio preámbulo de la Ley 3/2012, de 6 de julio, presenta la nueva medida como extraña al ámbito de la autonomía colectiva y expresamente la califica como un procedimiento de arbitraje: “en orden a facilitar la adaptación de los salarios y otras condiciones de trabajo a la productividad y competitividad empresarial, esta Ley incorpora una modificación del régimen del descuelgue para que, ante la falta de acuerdo y la no solución del conflicto por otras vías autónomas, las partes se sometan a un arbitraje”. En suma, es un tercero ajeno a los sujetos legitimados para negociar un convenio colectivo quienes, sin la oportuna delegación de los legitimados, acuerda unilateralmente la inaplicación, con patente vulneración por tanto de la fuerza vinculante del convenio colectivo reconocida constitucionalmente y, por efecto derivado, también de la libertad sindical en los términos que hemos referido.
Tratándose de un tercero el que resuelve al efecto, cabe con toda precisión técnica considerar dicho procedimiento como un arbitraje, por efectuarse por un tercero ajeno a las partes en desacuerdo; pero inmediatamente a continuación debe calificarse a dicho arbitraje como obligatorio, en la medida en que no viene precedido del necesario compromiso arbitral entre las partes en desacuerdo, que define por esencia a todo arbitraje voluntario. Si la norma hubiese contemplado que la intervención de la Comisión Consultiva u órgano asimilado se produce previo acuerdo de las partes en conflicto no habría nada que objetar, pues el mecanismo sería resultado de un libre sometimiento al correspondiente arbitraje voluntario, como sucede precisamente en la posible fase previa de sometimiento a los procedimientos arbitrales voluntarios contemplados en los sistemas autónomos de resolución de conflictos laborales. Pero, en este caso, la tacha de inconstitucionalidad deriva del hecho de que la intervención arbitral se produce con carácter forzoso, con la ausencia de aceptación de la misma por parte de la representación de una de las partes, en la práctica de la representación de los trabajadores; con lo cual en ningún caso se exige la celebración de compromiso arbitral alguno, ni para iniciar el procedimiento, ni para identificar el objeto de la discrepancia entre las partes ni para decidir la persona que como árbitro debe decidir. Se trata de un arbitraje público, por cuanto que la decisión se adopta en el seno de un organismo público (que sustituye a lo pactado en convenio colectivo), en la medida en que la naturaleza de sus acuerdos son los propios de los actos administrativos.
A estos efectos, el procedimiento se asimila con intensidad al arbitraje obligatorio que se contemplaba para la resolución de los conflictos colectivos laborales por parte del Real Decreto-Ley 17/1977, de 4 de marzo, que fue declarado como inconstitucional por el propio Tribunal Constitucional, precisamente por ser contrario a la libertad sindical y al derecho a la negociación colectiva (STC 11/1981, de 8 de abril, BOE 23 de abril). En efecto, también en ese caso se trataba de una controversia laboral colectiva que venía remitida a un tercero --la autoridad laboral-- por exclusiva iniciativa de una de ellas y al margen de la conformidad o disconformidad de la otra representación colectiva. Es indiferente que en aquél caso el tercero fuese la autoridad laboral y en este caso se trate de un organismo público de composición tripartita, por cuanto que al final lo decisivo para el Tribunal Constitucional en su resolución de referencia era que se trataba de la intervención de un tercero sin previo compromiso arbitral de las partes en conflicto de delegación en el mismo de la resolución de su discrepancia, afectando con ello a la autonomía negocial de las partes.
En alguna medida se ha querido salvar la constitucionalidad de la fórmula por la circunstancia de que quien resuelve es un organismo tripartito, con participación directa con voz y voto de las representaciones sindicales y empresariales más representativas. Así lo viene a insinuar el propio preámbulo de la Ley cuando afirma que “Se trata, en todo caso, de órganos tripartitos y, por tanto, con presencia de las organizaciones sindicales y empresariales, junto con la de la Administración”. Sin embargo, este dato no permite superar la tacha de constitucionalidad y ello por dos razones básicas:
La primera de ellas es que esas representaciones sindicales y empresariales, por su ámbito de actuación, ciertamente estarían legitimadas para negociar un convenio colectivo de ámbito estatal (si se trata de la actuación de la Comisión Consultiva Nacional) o de un convenio colectivo de ámbito autonómico (si se trata de la actuación del organismo correspondiente en el ámbito de una Comunidad Autónoma). Pero ni lo uno ni lo otro es lo que están efectuando aquí estos organismos públicos cuando resuelven la inaplicación correspondiente de un convenio colectivo. Un lógico principio de correspondencia representativa conduciría a considerar que quienes están legitimados para ejercer el derecho a la negociación colectiva en este ámbito o bien lo son los representantes de los trabajadores en la empresa (que es donde se produce el efecto inaplicativo) o bien los correspondientes representantes en el ámbito en el que se negoció el convenio colectivo a inaplicar (pues es sobre el que se produce el efecto de excepción a su fuerza vinculante), pero no otros sujetos que pudieran actuar en diverso ámbitos; de lo contrario, se estaría lesionando el derecho constitucional a la negociación colectiva de los sujetos legitimados para alterar la eficacia del convenio negociado o los sujetos legitimados para introducir una regla de excepción en la propia empresa. Al final ello supondría lesionar la libertad sindical de unos representantes sindicales por parte de otros representantes sindicales pero sin legitimidad para ello.
La segunda de las razones es que, al tratarse de un organismo tripartito, de composición paritaria, a la postre, y aunque sea de manera oculta, la norma no hace otra cosa que atribuir materialmente la capacidad resolutoria del conflicto a la autoridad laboral, por cuanto que en el contexto en el que se desarrolla la discrepancia ostenta el voto de calidad decisivo de decisión al respecto. No requiere de gran pormenorización dar por cierto que, con todos los antecedentes y fases de desacuerdo en el que se ha desarrollado el conflicto, si se llega a esa fase sin acuerdo entre las representaciones de trabajadores y empresarios, las posiciones de las partes necesariamente se reproducirán en el seno de la Comisión Consultiva: la representación sindical en la misma se pronunciará en contra de la inaplicación y la representación empresarial a favor de la inaplicación, lo que remitiría la decisión al criterio que adoptase la representación de la administración pública en el seno de dicho organismo. Precisamente lo que define a todos y cada uno de estos organismos públicos es su carácter tripartito y el derecho de voto paritario de cada uno de ellos, con lo cual la regla de la decisión mayoritaria desemboca necesariamente en el resultado de que quien materialmente decide en estos casos es necesariamente la representación de la Administración laboral. Precisamente por ello nos enfrentamos a un sistema que con toda precisión técnica cabe calificar de arbitraje obligatorio público, por la naturaleza jurídica del organismo que lo resuelve y por quien materialmente decide sobre la discrepancia en cuestión; con lo cual queda más patente si cabe la identidad del mecanismo con el arbitraje obligatorio declarado en su día inconstitucional por el Tribunal Constitucional.

Ni siquiera la tacha de inconstitucionalidad se superaría en la hipótesis de que se practicase la fórmula alternativa contemplada legalmente, conforme a la cual no es directamente la Comisión Consultiva o el organismo correspondiente quien resuelve la discrepancia, por cuanto que ésta o éste se limitan a designar a un árbitro para que sea dicho árbitro quien resuelva el conflicto de pretendida inaplicación del convenio colectivo. La lesión de origen que se produce sobre la garantía de la fuerza vinculante del convenio colectivo se traslada plenamente a la actuación del árbitro y ello, por las siguientes razones. Primera, porque se mantiene el carácter de arbitraje obligatorio resuelto contra la voluntad de los representantes de los trabajadores en la empresa y de quienes negociaron el convenio colectivo que se pretende inaplicar. Segundo, porque la posible actuación de las representaciones sindicales y empresariales no elimina el defecto, al no poder estos ir contra el derecho a la negociación colectiva de los representantes sindicales en los ámbitos precedentes. Tercero, por cuanto que una vez más funcionalmente quien decidirá finalmente acerca del árbitro a designar será nuevamente la representación de la Administración laboral en el seno del mencionado organismo público.
En definitiva, nos encontramos, de hecho, ante una intromisión pública frente a la autonomía colectiva que preserva el art. 37 de la Constitución y que afecta claramente al contenido esencial de la negociación colectiva.
Como ha afirmado recientemente la Audiencia Nacional (sala de lo social) en relación con la posible afectación del derecho constitucional a la negociación colectiva por la reforma laboral de 2010, y que cita reiterada doctrina del Tribunal Constitucional, “el contenido esencial propio de la negociación colectiva integra propiamente cinco facultades: la de negociación; la de elección del nivel de negociación; la de selección de los contenidos negociables; la de fuerza vinculante del convenio y la de administración de lo pactado, habiéndose entendido por la doctrina científica que este conjunto de facultades define el espacio constitucional de la negociación colectiva y también debe ser inmune a las injerencias e intromisiones públicas frente a la autonomía colectiva” (Auto de 28 de octubre de 2010); aspecto este último que no encuentra respeto en la regulación recurrida tal como se está mostrando con claridad.
Es más, reconocida la negociación colectiva no ya como derecho en sí mismo, que también, sino como contenido esencial de la libertad sindical debemos tener en cuenta una serie de consideraciones que la previsión normativa ahora recurrida puede vulnerar.
En primer lugar, como decimos, el Tribunal Constitucional reiteradamente ha declarado “que el derecho a la negociación colectiva de los sindicatos está integrado en el contenido del derecho del art. 28.1 de la Constitución, como recoge, por otra parte, expresamente, la Ley Orgánica de Libertad Sindical (STC 238/2005, de 26 de septiembre). Ello es así “por erigirse la negociación colectiva en un medio necesario para el ejercicio de la acción sindical que reconocen los arts. 7 y 28.1 CE” (STC 98/1985, de 29 de julio); y, por tanto, porque la libertad sindical “comprende inexcusablemente también aquellos medios de acción sindical (entre ellos la negociación colectiva) que contribuyen a que el sindicato pueda desenvolverla actividad a que está llamado por la Constitución” (SsTC 9/1988, de 25 de enero, 51/1988, de 22 de marzo, 127/1989, de 13 de julio, o 121/2001, de 4 de junio).
En segundo lugar, y derivado de lo anterior, ello supone, como sigue afirmando, que “en la negociación colectiva de condiciones de trabajo converge no solo la dimensión subjetiva de la libertad sindical en relación con el sindicato afectado –medida la afección como perturbación o privación injustificada de medios de acción- sino que alcanza también al sindicato en cuanto representación institucional a la que constitucionalmente se reconoce la defensa de determinados intereses (SsTC 3/1981, de 2 de febrero, 70/1982, de 29 de noviembre, 23/1984, de 20 de febrero, 75/1992, de 14 de mayo, 18/1994, de 20 de enero)” (STC 238/2005, de 26 de septiembre).
Por tanto, como concluye la sentencia citada, “negar u obstaculizar el ejercicio de dicha facultad negociadora por los sindicatos o desvirtuar su eficacia han de entenderse no sólo como prácticas vulneradoras del art. 37.1 CE y de la fuerza vinculante de los convenios declarada por dicho precepto, sino también como violaciones del derecho de libertad sindical que consagra el art. 28.1 (SsTC 108/1989, de 8 de junio, F.2; y 105/1992, de 1 de junio, F.5).
Y no ante otra cosa nos encontramos con la regulación cuya constitucionalidad se cuestiona. La misma sustrae a la representación sindical (y empresarial) las facultades más elementales del derecho a la negociación colectiva y, en la medida en que forma parte de su contenido esencial, del derecho de libertad sindical del que es titular. Y no sólo individualmente considerado como tal titular, sino institucionalmente, en la medida en que desplaza las referidas facultades a una decisión que no deja de ser administrativa (al tener la administración, como decimos, un rol protagonista), sustrayendo las mismas a quien constitucionalmente tiene encomendada la función de negociación y de regulación de las condiciones de trabajo, que constituye, como afirma el Tribunal Constitucional (por todas, STC 95/1985, de 29 de julio), “el núcleo mínimo e indispensable de la libertad sindical”. Además, por ello, vulnera la fuerza vinculante del convenio colectivo, desvirtuando su eficacia y afectando la función institucional que corresponde al sindicato conforme a lo previsto en el art. 7 de la Constitución suponiendo una intromisión de hecho de los poderes públicos en la negociación colectiva.
No puede entenderse, por las razones expuestas, la concurrencia de justificación suficiente para obviar estos aspectos básicos de la conformación constitucional de nuestro sistema de relaciones laborales y de los derechos fundamentales. Siendo como es el poder de regulación de representantes de los trabajadores y de empresarios, con el fin de ordenar las relaciones laborales (STC 58/1985, de 30 de abril), un elemento esencial del mismo en la definición que estableció el constituyente.
A mayor abundamiento, tal como se encuentra configurado el procedimiento de inaplicación, la norma no deja margen relevante de decisión en torno a la oportunidad o no de proceder a dictar la resolución de inaplicación convencional. En efecto, tanto el organismo público correspondiente si decide directamente como el árbitro designado en su caso por éste organismo necesariamente debe acordar la inaplicación del convenio de concurrir las causas justificativas previstas legalmente. Dicho de otro modo, a efectos de la decisión de si debe o no procederse a la inaplicación no cabe margen de discrecionalidad alguno, pues según la norma ésta procede necesariamente cuando concurren las correspondientes causas justificativas previstas legalmente. Como precisa la norma “cuando concurran causas económicas, técnicas, organizativas o de producción… se podrá proceder…a inaplicar en la empresa las condiciones de trabajo previstas en el convenio colectivo aplicable”. Precisando a continuación que “Se entiende que concurren causas económicas cuando de los resultados de la empresa se desprenda una situación económica negativa, en casos tales como la existencia de pérdidas actuales o previstas, o la disminución persistente de su nivel de ingresos ordinarios o ventas. En todo caso, se entenderá que la disminución es persistente si durante dos trimestres consecutivos el nivel de ingresos ordinarios o ventas de cada trimestre es inferior al registrado en el mismo trimestre del año anterior. Se entiende que concurren causas técnicas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los medios o instrumentos de producción; causas organizativas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los sistemas y métodos de trabajo del personal o en el modo de organizar la producción, y causas productivas cuando se produzcan cambios, entre otros, en la demanda de los productos o servicios que la empresa pretende colocar en el mercado”. Es cierto que dicha definición de las causas justificativas literalmente se establece en relación con la primera fase de acuerdo entre las partes; pero la interpretación sistemática del precepto sólo permite entender que esas causas igualmente se extienden al resto de las fases del procedimiento y que necesariamente vinculan a la decisión de la Comisión Consultiva Nacional de Convenios Colectivos o al organismo correspondiente de las Comunidades Autónomas o, en su caso, al árbitro designado por estas. En definitiva, concurriendo tales causas, el organismo público y el árbitro deberán proceder a inaplicar el convenio colectivo y, con ello, provocar el correspondiente efecto lesivo a la fuerza vinculante del convenio colectivo y a la libertad sindical.
En particular, debe destacarse que las causas, tal como son descritas legalmente, resultan de una amplitud extrema, de modo que basta que la medida provoque efectos positivos sobre la marcha de la empresa para que la misma quede plenamente justificada. Dicho de otro modo, el supuesto legal permite e impone la inaplicación en la práctica totalidad de las ocasiones, bastando con que la dirección de la empresa cumpla con la simple formalidad de solicitarlo así al organismo público correspondiente. En suma, lo que aparentemente se presenta como una excepción se permite como regla general y, por tanto, como regla general se admite que ceda la fuerza vinculante de los convenios colectivos.
La mencionada enorme amplitud de las causas justificativas para proceder a la inaplicación de lo pactado en convenio colectivo presenta, por añadidura dos efectos adicionales de enorme trascendencia.
El primero de los efectos aludidos reside en que, al tener esta consideración para la norma la procedencia de la inaplicación convencional, no sólo el organismo público o el árbitro designado por éste no tiene otra opción que proceder a acordar la mencionada inaplicación, sino que por añadidura el poder judicial carece a posteriori de cualquier capacidad de control de la adecuación o no de la medida inaplicativa. Procede esta en todo caso, con lo cual la misma escapa a todo control posible de conformidad a la legalidad vigente, con lo que en definitiva se impide a todos los efectos el posible ejercicio del derecho a la tutela judicial efectiva, con lesión en estos términos al derecho fundamental consagrado constitucionalmente (artículo 24 de la Constitución). Precisamente en estos términos lo ha valorado el Consejo de Garantías de la Generalidad de Cataluña en el Dictamen emitido sobre la constitucionalidad del Real Decreto-Ley 3/2012, que a estos efectos reproduce en todo sus términos la literalidad del vigente artículo 82.3 del Estatuto de los Trabajadores tal como figura en la redacción dada por la Ley 3/2012 que es objeto de impugnación por medio del presente recurso de inconstitucionalidad. En este sentido, debe tenerse en cuenta también que el Tribunal Constitucional ha afirmado que “(l)a autonomía de la voluntad de las partes –de todas las partes– constituye la esencia y el fundamento de la institución arbitral” (STC 174/1995, de 23 de noviembre); apreciación que le aboca a considerar “ contrario al derecho a la tutela judicial efectiva (artículo 24.1 CE) la imposición obligatoria e imperativa del sometimiento a arbitraje” (STC 136/2010, de 2 de diciembre).
El segundo de los efectos anunciados es que con este diseño del procedimiento de inaplicación de los convenios colectivos y, en particular, de las causas que lo justifican, el mismo se configura como una institución de posible aplicación generalizada; en sentido contrario, sin rasgo alguno de excepcionalidad o justificación en base a circunstancias extraordinarias. Es relevante hacer hincapié en esta circunstancia a los efectos de contratar este procedimiento con la doctrina dictada por el Tribunal Constitucional en materia de arbitraje obligatorio, en particular en el ámbito de lo laboral. En efecto, si bien el Tribunal Constitucional (STC 11/1981, de 8 de abril), tal como se señaló previamente, consideró inconstitucional el mecanismo de laudo arbitral obligatorio en los procedimientos de conflictos colectivos laborales, hizo la advertencia de que no ello suponía una exclusión para todo supuesto o situación de los arbitrajes obligatorios. En concreto, el Tribunal admitió que sería aceptable constitucionalmente el establecimiento de un arbitraje obligatorio en situaciones extraordinarias o excepcionales; tan es así que la propia sentencia del Tribunal Constitucional (STC 11/1981, de 8 de  abril) dará su conformidad al arbitraje obligatorio previsto en el párrafo segundo del art. 10 del Real Decreto-Ley 17/1977, de 4 de marzo, pero haciéndolo justamente en base a que dicho arbitraje lo es para situaciones de marcada excepcionalidad: “El Gobierno, a propuesta del Ministerio de Trabajo, teniendo en cuenta la duración o las consecuencias de la huelga, las posiciones de las partes y el perjuicio grave de la economía nacional, podrá acordar...el establecimiento de un arbitraje obligatorio”. Por contraste comparativo resulta manifiesto que en la regulación contenida en el artículo 82.3 del Estatuto de los Trabajadores en materia de inaplicación convencional no se vislumbra aproximación alguna a un escenario de excepcionalidad o de carácter extraordinario tal como lo exige la jurisprudencia constitucional, ni por similitud a las causas justificativas exigidas para el arbitraje obligatorio aceptado como constitucional ni por otra situación extraordinaria o de excepcionalidad que admitiría como correcta la jurisprudencia constitucional. En suma, por esta ausencia de excepcionalidad o situación extraordinaria en la regulación del procedimiento de arbitraje obligatorio para el procedimiento de inaplicación convencional debe una vez más concluirse en la presencia de una palpable lesión al derecho constitucional a la negociación colectiva y a la libertad sindical.
Consciente de todas estas dificultades de adecuación al modelo constitucional, el propio legislador intenta justificar medida tan extrema de lesión a la fuerza vinculante de los convenios colectivos. En efecto, para el preámbulo de la Ley la única justificación a todo ello se encuentra en la defensa de la productividad de la empresa. Literalmente dice el mencionado preámbulo que “Se trata, en todo caso, de órganos tripartitos y, por tanto, con presencia de las organizaciones sindicales y empresariales, junto con la de la Administración cuya intervención se justifica también en la necesidad de que los poderes públicos velen por la defensa de la productividad tal y como se deriva del artículo 38 de la Constitución Española”. Ya de por sí resulta sorprendente que el legislador en su preámbulo haya mencionado exclusivamente este precepto constitucional para fundamentar todo el conjunto de medidas reformadoras que se adopta con la Ley objeto de impugnación parcial por medio del presente recurso de inconstitucionalidad. Pero, sobre todo, lo más relevante reside en que no cabe introducir una excepción de tal envergadura a la fuerza vinculante de los convenios colectivos en base al mandato constitucional de tutela de la productividad. En la actualidad multitud de reglas laborales dirigidas a facilitar la flexibilidad requerida por las empresas se basan precisamente en el presente mandato dirigido a la defensa de la productividad empresarial, con lo cual no puede entenderse que el modelo laboral vigente sea refractario a las exigencias actuales de productividad por parte de las empresas. El problema reside aquí en que los mandatos constitucionales deben proporcionar un régimen legal de desarrollo que haga conciliables y compatibles los diversos intereses y derechos en juego. En particular, no se puede primar a tal extremo la defensa de la productividad al extremo de que se desvirtúe o desnaturalice la necesaria garantía de la fuerza vinculante de los convenios colectivos. Dicho de otro modo, nuestro modelo constitucional exigen un desarrollo legislativo que haga posible la garantía de la productividad empresarial sin lesionar el contenido esencial de la fuerza vinculante de los convenios colectivos y de la actividad sindical consustancial al derecho fundamental de libertad sindical. Precisamente lo contrario es lo que se contempla en la regulación aquí impugnada del procedimiento de inaplicación de los convenios colectivos, es decir, una primacía tal del principio de productividad que entra en directa confrontación con la fuerza vinculante de los convenios colectivos; una lectura aislada y asistemática del texto constitucional, sólo desde la perspectiva de la productividad, cuando nuestro modelo constitucional se presenta más complejo, rico y equilibrado en el contraste de los intereses en juego por parte de trabajadores y empresarios. Al ceder la negociación colectiva frente a la defensa de la productividad, tal como deriva del precepto impugnado, queda sin tutela la fuerza vinculante de los convenios colectivos. Dicho de otro modo, caben otros métodos de regulación de la materia que, sin desconocer la necesaria tutela de la productividad empresarial, no lesionen de manera frontal la fuerza vinculante de los convenios colectivos, tal como sucede en el régimen que aquí se impugna.
Por último, tampoco cabe establecer parangón alguno entre la competencia aquí asignada a la Comisión Consultiva Nacional de Convenios Colectivos, con la que le fue atribuida en el pasado de resolver las discrepancias entre las partes a los efectos de cerrar el largo proceso de derogación de las Ordenanzas Laborales. Se trata de una facultad que introdujo en su día la reforma laboral de 1994, sobre la cual nuestro Tribunal Constitucional no ha tenido oportunidad de pronunciarse, si bien nuestro Tribunal Supremo lo consideró conforme a las exigencias constitucionales. Es cierto que en cuanto a sus aspectos formales superficiales se podría establecer cierto paralelismo entre ambos procedimientos, especialmente por la unilateralidad del arranque y la facultad unilateral resolutoria que se le atribuía y se pretende atribuir ahora a la Comisión Consultiva u organismo correspondiente en el ámbito de las Comunidades Autónomas. Sin embargo, existe una diferencia cualitativa esencial que impide establecer ningún tipo de paralelismo o similitud entre ambos mecanismos. En concreto, sin entrar en mayores detalles, baste con destacar que en el caso del procedimiento de la reforma de 1994 para la derogación definitiva de las Ordenanzas Laborales se trataba de un mecanismo que, si bien cabría calificarlo también de arbitraje público obligatorio, lo era a los efectos de proceder a la sustitución de una norma estatal de rango reglamentario, por tanto, no afectada en modo alguno por el mandato constitucional de garantía de la fuerza vinculante de los convenios colectivos, mientras que en esta ocasión sí que se trata de un procedimiento de alteración de lo pactado en convenio colectivo y, por ende, con directa afectación a la fuerza vinculante de los convenios colectivos reconocida constitucionalmente. Dicho de otro modo, era referible a un supuesto que no se situaba en el ámbito de la autonomía colectiva, como sucede en el mecanismo aquí impugnado, sino en el del ejercicio de la potestad reglamentaria del poder ejecutivo para sustituir a las antiguas Ordenanzas Laborales aprobadas por medio de Orden Ministerial. A mayor abundamiento, se trataba de un proceso de sustitución excepcional de una norma de origen franquista, que por designio constitucional deberían derogarse.

3. Inconstitucionalidad del artículo 12.Uno de la Ley 3/2012, de 6 de julio por vulnerar los artículos 37.1, 28.1 y 24 de la Constitución Española.

El artículo 12.Uno de la Ley 3/2012 de 6 de julio, modifica el artículo 41 del Estatuto de los Trabajadores. En lo que aquí interesa, la facultad atribuida al empleador por el artículo 41.4 y 5 del Estatuto de los Trabajadores, de acordar unilateralmente la modificación de condiciones de trabajo pactadas en acuerdos o pactos colectivos, vulnera el reconocimiento constitucional de la fuerza vinculante de los convenios colectivos (art. 37.1 CE), el ejercicio de la actividad sindical garantizado a través del reconocimiento constitucional de la libertad sindical (art. 28.1 CE), así como el derecho a la tutela judicial efectiva (art. 24 CE).
En esta ocasión la permisión del incumplimiento de lo pactado a través de acuerdos y pactos colectivos es mucho más directa que en el supuesto contemplado en el apartado anterior, desde el instante en que la decisión de alterar lo pactado colectivamente ni siquiera depende del control de un tercero ajeno en forma arbitraje, sino que es el propio empleador quien lo decide libremente de forma unilateral, con el simple requisito previo de sometimiento a un período de consultas con los representantes de los trabajadores que resulta preceptivo pero en ningún caso vinculante. La norma resulta algo imprecisa en la determinación del tipo de contratos colectivos a los que afecta el procedimiento de modificación unilateral de condiciones de trabajo, imprecisión debida a que el legislador pretende no excluir a ningún tipo de acuerdo o pacto colectivo que se pueda celebrar entre los representantes de los trabajadores y empresarios; exceptuando eso sí a los convenios colectivos regulados en el título III del Estatuto de los Trabajadores, cuya inaplicación deberá someterse al procedimiento considerado en el apartado precedente a través del art. 82.3 del Estatuto de los Trabajadores (art. 41.6 Estatuto de los Trabajadores). Es para el resto de los convenios colectivos para los que se acepta la posibilidad de que los mismos se modifiquen y, por tanto, se incumplan por decisión unilateral del empleador, con flagrante lesión de la garantía del pacta sunt servanda colectivo del art. 37.1 y de la actividad sindical que se articula a través de la negociación de este tipo de acuerdos y pactos colectivos tutelada a través del reconocimiento constitucional de la libertad sindical del art 28.1, ambos del texto constitucional.
El resto de los convenios colectivos, que no son regulados por el título III del Estatuto de los Trabajadores, son esencialmente de dos tipos: de un lado, los convenios colectivos de eficacia limitada conocidos de manera generalizada como los convenios colectivos extraestatutarios, así como el enorme cúmulo de acuerdos colectivos de empresa contemplados de forma dispar a lo largo del texto del Estatuto de los Trabajadores y en general del conjunto de la legislación laboral. Elemento común a todas estas manifestaciones de convenios, acuerdos y pactos es que los mismos son fruto de procesos de negociación colectiva entre los representantes de los trabajadores y empresarios legitimados, por su contenido establecen un régimen de condiciones de trabajo respecto de materias que en igual medida se pueden encontrar reguladas en los convenios colectivos, son el resultado de un acuerdo formal entre las mencionadas representaciones que es concertado como vinculante para las mismas e incluso en la mayoría de las ocasiones son formalizados en términos similares a los convenios colectivos estatutarios; en negativo, lo único de lo que carecen es haberse sometido a los procedimientos y en algunos casos a los requisitos exigidos por el título III, pero incluso en otros supuestos cumpliendo materialmente estos últimos requisitos. Dicho de otro modo, materialmente se trata de auténticos convenios colectivos, a los que el legislador ordinario se resiste a otorgarle expresamente la denominación de tales; pero incluso, implícitamente acepta su condición de convenios colectivos, desde el instante en que cuando efectúa una excepción en cuanto al procedimiento aplicativo se refiere a “los convenios colectivos regulados en el título III del Estatuto de los Trabajadores”, dando a entender que existen otros convenios colectivos que no se regulan por tal título, que son precisamente los que se someten a un procedimiento de modificación-inaplicación por vía de simple decisión unilateral del empleador.
En todo caso, desde la perspectiva constitucional, lo relevante es que nuestro texto constitucional garantiza de forma directa y generalizada la fuerza vinculante de todos los convenios colectivos, sin que al legislador ordinario le quepa limitar o reducir el alcance de la fuerza vinculante a determinado tipo de convenios colectivos. El propio Tribunal Constitucional ha aceptado implícitamente que los convenios colectivos extraestatutarios gozan de la fuerza vinculante reconocida por el art. 37.1 de la Constitución (STC 73/1984, de 27 de junio, BOE 11 de julio; 98/1985, de 29 de julio, BOE 14 de agosto; 108/1989, de 8 de junio, BOE 4 de julio). Dicho de otro modo, existe desde la perspectiva constitucional una categoría institucional que son los convenios colectivos, a los que otorga fuerza vinculante, sin que quepa al legislador ordinario por el fácil expediente de diferenciar entre convenios colectivos del título III y el resto de los convenios colectivos (a los que denomina acuerdos y pactos colectivos a estos efectos), para con ello provocar el resultado de sacar fuera de la garantía constitucional de la fuerza vinculante a estos otros productos de la negociación colectiva, que materialmente son convenios colectivos a pesar de que el legislador ordinario se resista a ello. El texto constitucional no permite que se deje al arbitrio del legislador ordinario decidir qué productos de la negociación colectiva merecen el calificativo de convenios colectivos y cuáles no, pues de lo contrario se otorga al legislador ordinario plena discrecionalidad para decidir a qué acuerdos de los alcanzados entre los representantes de trabajadores y empresarios se extiende la fuerza vinculante constitucional. La posible identidad de contenidos entre lo que se puede pactar en un convenio colectivo regulado por el título III del Estatuto de los Trabajadores y lo que se puede hacer a través de los acuerdos y pactos colectivos es tal que el legislador admite que éstos últimos pueden llegar a modificar a los primeros, con lo cual en una segunda fase el empleador podría unilateralmente proceder a incumplir-modificar lo establecido en estos acuerdos y pactos colectivos con el efecto final de otorgarle a la dirección de la empresa la facultad directa de inaplicar lo establecido en cualquier convenio colectivo, incluidos los regulados por el título III del Estatuto de los Trabajadores.
La operación que efectúa el legislador ordinario no es otra que exigir el cumplimiento de idénticos requisitos para el otorgamiento de la fuerza vinculante y de la eficacia general de los convenios colectivos, contraviniendo con ello la jurisprudencia constitucional establecida sobre el particular. En efecto, el legislador ordinario al introducir la facultad empresarial de incumplimiento y modificación de los pactos y acuerdo colectivos, no hace otra cosa que reconocer la fuerza vinculante de los convenios garantizada constitucionalmente tan sólo a aquellos convenios colectivos que se sometan y, por tanto, cumplan los requisitos subjetivos y formales previstos en el título III del Estatuto de los Trabajadores. Para nuestro Tribunal Constitucional la legítima opción legislativa en favor de un convenio colectivo dotado de eficacia personal general, que en todo caso no agota la virtualidad del precepto constitucional, ha conducido a someter la negociación a unas reglas precisas limitadoras de la autonomía de la voluntad, especialmente rigurosas en lo que se refiere a la determinación de los sujetos negociadores (STC 73/1984, de 27 julio, BOE 11 julio; 108/1989, de 8 junio, BOE 4 julio). “Sólo en relación con los convenio colectivos de eficacia general, y por razones obvias, el legislador ha debido ordenar la negociación colectiva para garantizar la validez de los convenios. Pero de los preceptos que el Estatuto de los Trabajadores dedica a la negociación colectiva, ninguno se requiere en una negociación común de eficacia limitada. Cuando los recurrentes aducen que no se desarrolla esta negociación y entienden que la existencia y regulación de la negociación de eficacia general impide aquélla, vienen a cuestionar la opción legal (no excluyente) por la eficacia general. Esta opción ha sido, sin embargo, declarada legítima y adecuada al texto constitucional por este Tribunal, sentencias 4/1983, de 28 de enero, BOE de 17 de febrero; 12/1983, de 22 de febrero, BOE de 23 de marzo; 73/1984, de 27 de junio, BOE de 11 de julio” (STC 98/1985, de 29 julio, BOE 14 agosto). Para nuestro Tribunal Constitucional, pues, tales requisitos subjetivos y formales impuestos por la legalidad ordinaria son conforme al modelo constitucional en la medida en que se imponen como un condicionante adicional para el otorgamiento de la eficacia general al convenio colectivo, eficacia esta última que a su vez no deriva del texto constitucional sino que constituye un plus de eficacia otorgado por la legislación ordinaria; eso sí, en sentido contrario, siendo ese el fundamento de la exigencia de requisitos adicionales, los mismos no pueden imponerse para otorgarle la fuerza vinculante del convenio colectivo, pues este, insistimos, deriva directamente del propio texto constitucional y, por tanto, se reconoce al conjunto de los convenios colectivos y no exclusivamente a aquellos que reúnen los requisitos subjetivos y formales adicionales incorporados al título III del Estatuto de los Trabajadores. Es esto último precisamente lo que hace la nueva regulación del Estatuto de los Trabajadores cuando permitiendo la modificación unilateral de los acuerdos y pactos colectivos está devaluando por completo  su fuerza vinculante, al extremo de negar incluso el pacta sunt servanda de tales acuerdos y pactos colectivos de los que goza cualquier contrato privado conforme a lo establecido en la legislación civil.
A mayor abundamiento, y a semejanza de lo indicado anteriormente para el procedimiento de inaplicación de los convenios colectivos estatutarios, también debe destacarse que las causas justificativas contempladas legalmente para que el empresario pueda proceder a modificar las condiciones de trabajo pactadas en los acuerdos y pactos colectivos resultan de una amplitud extrema, de una enorme laxitud, de modo que basta que la medida provoque efectos positivos sobre la marcha de la empresa para que la misma quede plenamente justificada. Dicho de otro modo, el supuesto legal permite el incumplimiento de los acuerdos y pactos colectivos en la práctica totalidad de las ocasiones, bastando con que la dirección de la empresa cumpla con la simple formalidad de someterse a un previo período de consultas con los representantes de los trabajadores, preceptivo pero en modo alguno vinculante. Lo que contempla literalmente el precepto en cuestión es lo siguiente: “La dirección de la empresa podrá acordar modificaciones sustanciales de las condiciones de trabajo cuando existan probadas razones económicas, técnicas, organizativas o de producción”; añadiendo que “Se consideraran tales las que estén relacionadas con la competitividad, productividad u organización técnica o del trabajo en la empresa” (art. 41.1 Estatuto de los Trabajadores). Dicho con otras palabras, el legislador viene a otorgarle a la dirección de la empresa la facultad de incumplir los pactos y acuerdos colectivos en todo caso, salvando situaciones excepcionales de carácter discriminatorio o del todo punto arbitrarias. En suma, lo que en el pasado se presentaba en la regulación legal con ciertos rasgos de singularidad en atención a las causas determinantes, ahora se permite como regla general sin ningún tipo de trabas materiales por razón de las causas determinantes y, por tanto, como regla general se admite que ceda la fuerza vinculante de los convenios colectivos no regulados por el título III del Estatuto de los Trabajadores.
La mencionada enorme amplitud de las causas justificativas para proceder a la modificación-incumplimiento de lo pactado en los acuerdos y pactos colectivos conduce igualmente a dos conclusiones:
Primera que la excepción que ello comporta a la fuerza vinculante de los convenios colectivos ni siquiera se presenta con rasgos de excepcionalidad, con lo cual resulta más flagrante si cabe la lesión que con ello se produce a la garantía constitucional establecida en el artículo 37.1 de la Constitución y, por derivación, de la libertad sindical del artículo 28.1 de la Constitución que se ejerce por los representantes de los trabajadores a través del proceso de concertación de los acuerdos y pactos colectivos de referencia.
Segunda que con esa intensa laxitud de las causas justificativas, el ejercicio de la facultad unilateral de la empresa escapa a todo posible control de conformidad a la legalidad vigente, con lo que en definitiva se impide a todos los efectos el ejercicio del derecho a la tutela judicial efectiva, con lesión en estos términos al derecho fundamental consagrado constitucionalmente (artículo 24 de la Constitución).

4. Inconstitucionalidad del artículo 14.Dos de la Ley 3/2012, de 6 de julio por vulneración de los artículos 37.1 y 28.1 de la Constitución Española.

La preferencia absoluta e incondicionada del convenio colectivo de empresa respecto de otros ámbitos o niveles negociales, excluyendo incluso a estos efectos que los interlocutores sociales puedan establecer reglas diversas de articulación y concurrencia entre convenios colectivos al respecto, tal como se encuentra regulada en el art. 84.2 del Estatuto de los Trabajadores según la redacción dada por el artículo 14. Dos de la norma impugnada, vulnera los reconocimientos constitucionales de la libertad sindical y del derecho a la negociación colectiva previstos respectivamente en los artículos 28.1 y 37.1 de la Constitución.
Para valorar la adecuación constitucional de los preceptos de la Ley 3/2012, en general, y en particular los referidos a la negociación colectiva en el nivel empresarial, resulta necesario encuadrar tales preceptos en el marco de referencia de las disposiciones constitucionales sobre negociación colectiva y libertad sindical, y más especialmente, las que establecen una conexión entre ambas libertades y derechos.
Reiterada jurisprudencia constitucional ha establecido que un derecho como el de negociación colectiva constituye contenido esencial de la libertad sindical  (SsTC 4/1983, de 28 de enero, 73/1984, de 27 de junio, 98/1985, 29 de julio, 39/1986, de 31 de marzo, 187/1987, de 24 de noviembre, 51/1988, de 22 de marzo, 30/1992, de 18 de marzo, 105/1992, de 1 de julio, 164/1993, de 18 de mayo, 121/2001, de 4 de junio, 225/2001, de 26 de noviembre). Este derecho es de los que constituyen el núcleo mínimo e indispensable de la libertad sindical, junto al cual los sindicatos pueden ostentar derechos o facultades adicionales atribuidos por normas legales o convenios que pasan a añadirse al núcleo esencial. Con esta perspectiva, la violación del derecho fundamental de libertad sindical se dará cuando existan impedimentos al ejercicio de este derecho que no obedezcan a razones atendibles de protección de derechos e intereses constitucionalmente previstos, que el autor de una norma legal haya podido tomar en consideración.
El derecho a la negociación colectiva, aisladamente considerado, no es un derecho fundamental tutelable en amparo, pero precisamente cuando se trata del derecho de negociación colectiva de los sindicatos, éste se integra en el derecho fundamental a la libertad sindical, como una de sus facultades de acción sindical y como contenido de dicha libertad. El derecho a la libertad sindical comprende, como reconoce expresamente la LOLS el derecho a la negociación colectiva de los sindicatos. La negociación colectiva es un medio para el ejercicio de la acción sindical que reconocen los artículos 7 y 28.1 de la Constitución, porque la libertad sindical comprende inexcusablemente también aquellos medios de acción sindical (entre ellos, la negociación colectiva) que contribuyen a que el sindicato pueda desenvolver la actividad a que está llamado por la Constitución. Por tanto, negar, obstaculizar o desvirtuar el ejercicio de dicha facultad negociadora de los sindicatos implica una violación del derecho a la libertad sindical que consagra el artículo 28.1 de la Constitución. En la negociación colectiva de condiciones de trabajo converge no solo la dimensión estrictamente subjetiva de la libertad sindical en relación al sindicato afectado, medida la afección como perturbación o privación injustificada de medios de acción, sino que alcanza también al sindicato en cuanto representación institucional a la que constitucionalmente se reconoce la defensa de determinados intereses. La libertad sindical comprende el derecho a que los sindicatos realicen las funciones que de ellos es dable esperar, de acuerdo con el carácter democrático del Estado y con las coordenadas que a esta institución hay que reconocer, a las que se puede, sin dificultad, denominar contenido esencial de tal derecho; parte de este núcleo del artículo 28.1 de la Constitución lo constituye, sin duda, la negociación colectiva de condiciones de trabajo, puesto que resulta inimaginable que sin ella se logren desarrollar eficazmente las finalidades recogidas en el artículo 7 de la Constitución.
Desde estos criterios, la jurisprudencia ha considerado en supuestos específicos la existencia de vulneración de la libertad sindical cuando la limitación de la capacidad de actuación de un sindicato incida realmente en el derecho a la actividad sindical y tenga lugar de modo arbitrario, antijurídico y carente de justificación (SsTC 235/1988, de 5 de diciembre, 30/1992, de 18 de marzo, 164/1993, de 18 de mayo, 188/1995, 18 de diciembre, 107/2000, 5 de mayo). Y uno de los ejemplos de esta lesión serían las conductas que afecten a la posición negociadora del sindicato, vaciando sustancialmente de contenido la libertad sindical.
Es con esta perspectiva con la que habría que valorar la constitucionalidad de determinados aspectos de la regulación de la negociación colectiva contenidos en la Ley 3/2012, concretamente, la nueva regulación del apartado 2 del artículo 84 del Estatuto de los Trabajadores que establece lo siguiente:

“La regulación de las condiciones establecidas en un convenio de empresa, que podrá negociarse en cualquier momento de la vigencia de convenios colectivos de ámbito superior, tendrá prioridad aplicativa respecto del convenio sectorial estatal, autonómico o de ámbito inferior en las siguientes materias:
a.                  La cuantía del salario base y de los complementos salariales, incluidos los vinculados a la situación y resultados de la empresa.
b.                 El abono o la compensación de las horas extraordinarias y la retribución específica del trabajo a turnos.
c.                  El horario y la distribución del tiempo de trabajo, el régimen de trabajo a turnos y la planificación anual de las vacaciones.
d.                 La adaptación al ámbito de la empresa del sistema de clasificación profesional de los trabajadores.
e.                  La adaptación de los aspectos de las modalidades de contratación que se atribuyen por la presente Ley a los convenios de empresa.
f.                  Las medidas para favorecer la conciliación entre la vida laboral, familiar y personal.
g.                  Aquellas otras que dispongan los acuerdos y convenios colectivos a que se refiere el artículo 83.2.
Igual prioridad aplicativa tendrán en estas materias los convenios colectivos para un grupo de empresas o una pluralidad de empresas vinculadas por razones organizativas o productivas y nominativamente identificadas a que se refiere el artículo 87.1.
Los acuerdos y convenios colectivos a que se refiere el artículo 83.2 no podrán disponer de la prioridad aplicativa prevista en este apartado”
La aplicación de este nuevo criterio legal lleva a dos resultados. El primero, la posibilidad de inaplicar un convenio sectorial, negociado por organizaciones sindicales y empresariales, en el ámbito de una empresa, en materias tan específicas de la negociación colectiva como las que se mencionan, significadamente las retributivas. Esta inaplicación sería el resultado de la negociación, en cualquier momento de la vigencia del convenio sectorial, de un convenio de empresa, subscribible de acuerdo con las reglas del Estatuto de los Trabajadores por los comités de empresa y delegados de personal, no por la representación sindical de los trabajadores. En segundo lugar, la inaplicación de los criterios sobre estructura de la negociación colectiva, y de las reglas sobre complementariedad y prioridad de las unidades de negociación, contenidas en los acuerdos sobre ordenación de la estructura de la negociación colectiva o en los convenios sectoriales, también suscritos conjuntamente por las organizaciones sindicales y empresariales; y también, como en el caso de la inaplicación de los convenios sectoriales en su regulación de las condiciones de trabajo, esta inaplicación de criterios establecidos por sujetos asociativos sindicales y empresariales, se puede derivar de un acuerdo suscrito por el comité de empresa o delegado de personal, no por la representación sindical de los trabajadores.
Y en este punto, conviene recordar que, si bien es cierto que el sistema de representación de los trabajadores en el nivel empresarial es de carácter dual, articulable tanto por la vía de representación sindical como la de órganos electivos, también lo es que la jurisprudencia constitucional resalta la vinculación exclusiva con la libertad constitucional de sindicación del sistema de representación sindical, siendo la base constitucional de la representación a través de comités de empresa y delegados de personal, en su caso, la referida a los derechos de participación.
De lo expuesto se deduce que, como consecuencia de la aplicación de la redacción del artículo 84.2 del Estatuto de los Trabajadores derivada de la Ley 3/2012, la negociación colectiva sindical, contenido básico de la libertad sindical constitucionalmente tutelada, puede verse postergada en su capacidad de regulación laboral con lesión al derecho a la negociación colectiva y singularmente de la acción sindical amparada a través de la libertad sindical, como consecuencia de la aplicación de convenios colectivos negociados por sujetos representativos no sindicales. Y conviene insistir en que no solo estamos hablando de afectación de un contenido esencial de la libertad sindical, como es la capacidad de negociación colectiva, sino que además este vaciamiento de contenido de la negociación colectiva sindical se produce en dos aspectos esenciales para hacer reconocible un efectivo derecho de negociación colectiva. El primero de estos aspectos es el salarial, y no parece que haya que detenerse mucho tiempo en razonar sobre lo decisivo que para caracterizar la negociación colectiva resulta la determinación de salarios, desde los orígenes históricos de esta negociación ininterrumpidamente hasta la actualidad. Y lo mismo cabe decir de la capacidad de los interlocutores sociales para ordenar la estructura de la negociación colectiva.
Las organizaciones sindicales y empresariales son titulares constitucionales del derecho de negociación colectiva y, más en general, sujetos de rango constitucional en la configuración del ámbito socioeconómico al que la Constitución Española dedica una parte considerable de sus contenidos. Estas organizaciones son sujetos con capacidad normativa en el ámbito laboral, conforme a la Constitución Española. Pues bien, una de las características más típicas de la negociación colectiva como fuente de la regulación laboral es la posibilidad de desarrollarse en una diversidad de ámbitos territoriales, sectoriales o funcionales. Y esta capacidad de regulación multinivel lleva a la necesidad de establecer reglas que clarifiquen cuál es o cuáles son los convenios colectivos aplicables en un determinado ámbito en el que se desarrollan las relaciones laborales.

En principio, las actitudes del legislador que desarrolla el derecho constitucional de negociación colectiva pueden ser bien diferentes, desde la plena encomienda a los titulares constitucionales de la negociación colectiva de la capacidad de establecer las reglas sobre prioridad aplicativa de los convenios hasta una cierta orientación por el legislador de los criterios para fijar el o los convenios aplicables. Sin embargo, lo que no resulta posible en términos constitucionales es que la normativa estatal proceda a fijar con exclusividad e imperativamente la estructura de la negociación colectiva, así como la determinación absoluta de los criterios conforme a los cuáles se resuelven los conflictos de concurrencia entre convenios colectivos o, en su caso, de articulación entre los mismos. Forma parte del contenido esencial del derecho a la negociación colectiva tutelado constitucionalmente, no sólo la fijación de las condiciones de trabajo a través de los convenios colectivos, sino también la correspondiente al diseño de la estructura de la negociación colectiva y, por ende, la participación por parte de las organizaciones sindicales y empresariales en la fijación de las reglas de concurrencia y articulación entre convenios colectivos. Una intervención legal totalmente invasiva en este terreno ahogaría el protagonismo que en este terreno le corresponde también a la autonomía colectiva. Sin lugar a dudas, a la norma estatal le corresponde garantizar el derecho a la negociación colectiva y, por ende, se encuentra legitimada para fijar el marco general de la negociación colectiva, incluyendo la fijación de criterios básicos en materia de concurrencia entre convenios. Pero lo que no puede hacer el legislador estatal es adoptar fórmulas de intervencionismo exacerbado que no respeten el espacio vital y el protagonismo mínimo que en este terreno le debe corresponder a las organizaciones sindicales y empresariales como titulares constitucionales del derecho a la negociación colectiva.
Es en estos términos, que la fórmula incorporada por la reforma de la Ley 3/2012, de 6 de julio, resulta plenamente invasiva y, como tal contraria a los artículos 37.1 y 28 de la Constitución, En concreto, lo que hace la Ley 3/2012, de 6 de julio, es precisamente establecer una preferencia del convenio colectivo de empresa frente al sectorial que presenta como absoluta, incondicionada y sin posibilidades de matices algunos por parte de la actuación de las organizaciones sindicales y empresariales en el ejercicio de su autonomía negocial. Impide por completo el ejercicio de la libertad de opción a los interlocutores sociales, de modo que la medida carece de objetividad y de proporcionalidad para ser aceptable desde la perspectiva de su encaje constitucional. Frente a otras posibles fórmulas de equilibrio de los intereses en juego, por vía de técnicas jurídicas de complementariedad, colaboración o cooperación normativa, la fórmula de intervencionismo máximo de legislador provoca un efecto excluyente del protagonismo de los interlocutores sociales, como tal injustificadamente restrictivo del derecho a la negociación colectiva.
Y es desde esta perspectiva desde la que habría que valorar hasta qué punto una intervención legal que prive totalmente de eficacia jurídica a los criterios sobre estructura de la negociación colectiva determinados por los titulares constitucionales de este derecho es compatible con la libertad sindical y el derecho a la negociación colectiva.
Un planteamiento de inconstitucionalidad por lesión de la libertad sindical en su contenido de negociación colectiva es por supuesto compatible con el reconocimiento de la capacidad del legislador de optar entre los posibles modelos de estructuración de la negociación colectiva y de priorización de unidades negociales. No se trata de plantear un conflicto sobre prioridad de la Ley o del convenio colectivo, sino de marginación y exclusión del espacio que por naturaleza le debe corresponder a la negociación colectiva. En los supuestos examinados por el Tribunal Constitucional, fundamentalmente referidos a la aplicación de la Ley que estableció el límite máximo de jornada en 40 horas respecto de las jornadas pactadas en convenios vigentes en la fecha de entrada en vigor de esta norma y a la prevalencia de las disposiciones de las leyes de presupuestos sobre límites salariales en el sector público en relación a los salarios negociados colectivamente, lo que se planteaba era la contradicción entre los contenidos de una determinada regulación de las condiciones de trabajo fijadas convencionalmente y las disposiciones legales, resuelto por la doctrina constitucional otorgando prioridad aplicativa a la Ley sobre el convenio (SsTC 58/1985, de 30 de abril; 177/1988, de 10 de octubre, 171/1989, de 19 de octubre; 210/1990, de 20 de diciembre; 62/2001, de 1 de marzo). Aquí de lo que se trata es de las relaciones no entre Ley y convenio, sino entre convenio y convenio, de modo que se delimite el mapa negocial de forma impositiva absoluta o no por parte de la norma estatal.
Es más, con la presente redacción, el legislador sustrae a los negociadores no solo la facultad de selección de contenidos negociales sino que va más allá del establecimiento de normas o reglas de articulación o estructura de la negociación colectiva que podría corresponderle y evita la más básica función de administración de lo pactado, en la medida en la declarada preferencia aplicativa del convenio de empresa se puede hacer efectiva “en cualquier momento de la vigencia de convenios colectivo de ámbito superior”, dejando así, sin efecto, la vigencia del convenio afectado y conculcando, en el sentido que se indica, su propia fuerza vinculante, la libertad sindical de los negociadores –sindicatos- en la medida en que se afecta el derecho a la negociación y la posición institucional que constitucionalmente tienen reconocida sindicatos y organizaciones empresariales.
En este caso, lo que se plantea es una contradicción entre lo que dispone una norma legal en cuanto al modo de desarrollo de la negociación colectiva en sus ámbitos y en las relaciones entre éstos, y lo que sobre esta materia acuerdan los titulares constitucionales sobre el derecho de negociación colectiva. No se trata de una decisión sobre qué regulación de las condiciones de trabajo debe prevalecer, si la legal o la convencional. Se trata de una decisión sobre los límites que el legislador estatal puede establecer en el modo de negociar colectivamente, y más concretamente en el modo de estructurar la negociación colectiva desarrollada por sus titulares constitucionales, de forma compatible con que esta intervención legal no afecte al contenido esencial de la libertad sindical manifestada a través de la negociación colectiva.
Para solventar esta cuestión habrá que acudir a los criterios habituales de valoración de la constitucionalidad de la limitación de un derecho constitucional, en base a criterios objetivos y racionales relacionados con la tutela de otros bienes y derechos constitucionalmente protegidos.
En el presente caso, y según claras expresiones del Preámbulo de la Ley 3/2012, el legislador busca garantizar la descentralización convencional en aras a facilitar una negociación de las condiciones laborales en el nivel más cercano y adecuado a la realidad de las empresas y de sus trabajadores. Es este un objetivo que, más allá de los debates sobre su razonabilidad desde la perspectiva socioeconómica, sin duda que es legítimamente perseguible por los Poderes Públicos que entiendan que una negociación colectiva plenamente descentralizada favorece la flexibilidad de los empresarios y la seguridad de los trabajadores.
Pero una cosa es reconocer la legitimidad constitucional de una intervención legislativa orientada a favorecer, por criterios de flexibilidad laboral, la descentralización de la negociación colectiva, y otra bien distinta sería la imposibilidad de cuestionar constitucionalmente la fórmula adoptada por el legislador. Y en este caso, el cuestionamiento se deriva de que, de entre las distintas fórmulas por las que el legislador pudo optar para favorecer las descentralización convencional, ha optado por una que puede conseguir dicho propósito, pero que lo hace produciendo una lesión de la libertad sindical y del derecho de negociación colectiva, porque de esta fórmula legal se puede derivar la pérdida de fuerza vinculante, tanto de los convenios sectoriales (en materias claves para la configuración de los mismos, como son significadamente los salarios) suscritos por las organizaciones sindicales y empresariales, como de los acuerdos interprofesionales o los mismos convenios sectoriales, cuando éstos ordenan el modo de desarrollo de la estructura de la negociación colectiva.
Y para esta valoración de la ausencia de razonabilidad y proporcionalidad del derecho de negociación colectiva sindical, resultan fundamentales dos apreciaciones:
La primera, referida a la peculiaridad de la negociación colectiva en el nivel empresarial de poder desarrollarse tanto por sujetos sindicales como por órganos electivos como son los comités de empresa y delegados de personal. Esto supone que al mantener el legislador este doble canal de representación negocial en el nivel de empresa, los convenios y acuerdos profesionales negociados sindicalmente van a poder ser privados de fuerza vinculante por la aplicación prioritaria, en un número considerable de materias claves para la regulación laboral, de convenios colectivos suscritos por sujetos representativos de naturaleza no sindical.
La segunda apreciación tiene que ver con el juicio de razonabilidad y proporcionalidad desde la perspectiva de la existencia de otras medidas legales que puedan conducir a los mismos objetivos de descentralización de la negociación colectiva con el objetivo de adaptabilidad, sin lesionar con ello el derecho constitucional a la negociación colectiva en su vertiente de poder influir sobre la estructura de la negociación colectiva con reglas de concurrencia entre convenio que maticen a las legalmente establecidas. Y no se está formulando ahora un planteamiento retórico, de alusión indeterminada a medidas alternativas también indeterminadas, porque el legislador podría haber optado en estos casos por dar prioridad a la negociación en el nivel empresarial, sin perjuicio de dejar abierta la posibilidad de que en determinados ámbitos por sus especialidades los negociadores prefiriesen un marco más centralizado o bien un marco de mayor compatibilidad por vía del reparto de contenidos en cada ámbito a través de una técnica de articulación convencional bien conocida en diversos sistemas de relaciones laborales; o bien en establecer cauces de comunicación entre los órganos de administración del convenio sectorial y los negociadores del nuevo convenio de empresa.

5. Inconstitucionalidad de la Disposición final cuarta. Dos de la Ley 3/2012, de 6 de julio, por vulneración de los artículos 37.1, 28 y 14 de la Constitución Española, y en relación con los anteriores, por vulneración de los artículos 23.2 y 103.3 de la Norma Suprema.

La declaración como nulas y sin efectos de las cláusulas de los convenios colectivos que posibiliten la extinción del contrato de trabajo por cumplimiento de la edad ordinaria fijada en la normativa de Seguridad Social, contemplada en la regulación de la disposición adicional 10ª del Estatuto de los Trabajadores, conforme a la redacción dada por la Disposición final cuarta. Dos de la Ley 3/2012, es contraria al derecho a la negociación colectiva reconocido por el artículo 37.1 de la Constitución, a la libertad sindical del artículo 28 de la Constitución, a la prohibición de tratamiento discriminatorio del artículo 14 de la Constitución, así como al derecho al acceso a funciones públicas en condiciones de igualdad de los artículos 23.2 y 103.3 de la Constitución.
Forma parte del derecho a la negociación colectiva la libertad de las partes de decidir las materias respecto de las que asumen compromisos y regulan sus condiciones de trabajo, sin más limitaciones que el respeto a los mínimos de derecho necesario establecidos legalmente, así como a las normas de orden público laboral. Naturalmente, la normativa estatal ostenta un espacio amplio de regulación de las relaciones laborales y de las condiciones de trabajo, que debe ser respetado por la negociación colectiva; pero, en iguales términos, la negociación colectiva por designio constitucional posee un espacio regulativo propio que no puede ser ahogado ni suprimido por completo por parte de la normativa estatal. El derecho a la negociación colectiva establecido constitucionalmente debe necesariamente incluir la libre decisión de negociar sobre las materias que las propias partes estimen oportunas, influyendo con efectividad sobre el régimen de contratación laboral y sus condiciones de ejecución, pues de lo contrario se trataría de un mero derecho formal, sin contenido real. De ahí que un impedimento carente de fundamento y proporcionalidad de la libertad de las partes de pactar sobre el régimen del contrato de trabajo ha de entenderse contrario al derecho a la negociación colectiva establecido en el artículo 37 de la Constitución.
En particular, en esta materia relativa a la jubilación del trabajador confluyen diferentes derechos subjetivos e intereses legítimos, que deben ser tomados en consideración tanto por la normativa estatal como por la propia negociación colectiva. De modo resumido, ha de tenerse presente que en esta materia inciden de manera directa tanto el derecho al trabajo reconocido constitucionalmente (artículo 35.1 de la Constitución) como el desarrollo de una política de empleo que atiende a las demandas del conjunto de la población con expectativas de incorporarse al mercado de trabajo (artículo 40.1 de la Constitución), la promoción de las condiciones favorables para una distribución de la renta personal más equitativa en el marco de una política de estabilidad económica (igualmente artículo 40.1 de la Constitución), sin desconocer tampoco que el mantenimiento de un régimen público de Seguridad Social puede requerir de medidas que garanticen su equilibrio financiero (artículo 41 de la Constitución), ni dejar siquiera de tener en cuenta las exigencias de eficiencia económica de las empresas cuya productividad depende de una adecuada composición cuantitativa de sus plantillas (artículo 38 de la Constitución). Dicho de otro modo, se debe propiciar legal y convencionalmente un régimen equilibrado que garantice al propio tiempo la permanencia en el trabajo sin diferencias injustificadas por razón de edad, medidas que permitan la prolongación de la edad de jubilación de la población de edad avanzada en la medida en que ello sea preciso para garantizar el equilibrio financiero del sistema público de Seguridad Social, junto con una distribución del empleo entre las diversas generaciones, con especial atención a las expectativas de incorporación al mercado de trabajo de la población juvenil, que a su vez promueva una distribución de la renta más equitativa desde la perspectiva generacional, así como con canales adecuados de adaptación numérica de las plantillas de las empresas a las necesidades empresariales en aras de su productividad. Como es fácil percibir se trata de objetivos que en la práctica se contraponen en cierta medida los unos respecto de los otros, especialmente los dos primeros mencionados (derecho al trabajo y prolongación de la edad de jubilación) con los dos últimos referidos (distribución generacional del empleo y adaptación de las plantillas de las empresas a sus necesidades económicas). Por ello, ninguno de los diferentes derechos subjetivos e intereses legítimos que amparan y son instrumentos de tales objetivos se pueden considerar como absolutos, ni regularse de forma aislada sin tener presente todos los intereses en juego. A la postre, la clave se encuentra en el equilibrio entre los mismos, permitiendo un juego proporcionado de los diferentes objetivos del conjunto de los grupos sociales e intereses económicos. No se excluye, por tanto, la posibilidad de que la Ley establezca topes, condicionantes o límites a los contenidos de los convenios colectivos y, siendo la legislación laboral, con carácter general, normas imperativas, la misma está plagada de límites a lo negociable por la negociación colectiva; pero lo que tampoco es conforme al texto constitucional es incorporar una prohibición plena, que más allá de los límites objetivos, justificados y proporcionados, impida el ejercicio del derecho a la negociación colectiva con lesión del contenido esencial del correspondiente derecho consagrado en el artículo 37.1 de la Constitución.
Desde esta perspectiva debe recordarse que desde la entrada en vigor de la primera versión del Estatuto de los Trabajadores en 1980 y con muy diversas fórmulas, la negociación colectiva de manera generalizada ha venido incorporando reglas diversas de extinción del contrato de trabajo al cumplimiento de edades avanzadas que permiten la jubilación del trabajador conforme al régimen correspondiente de Seguridad Social. Se trata de cláusulas hasta el momento presente en un elevado porcentaje de convenios colectivos, enmarcadas todas ellas dentro de la ordenación de la política de empleo en el ámbito funcional en el que se negocia el correspondiente convenio colectivo. En estos términos, la legislación laboral estatal ha ido variando con el paso del tiempo, pero prácticamente siempre con una orientación de admisión general de este tipo de cláusulas de los convenios, si bien estableciendo los correspondientes condicionantes a los efectos de garantizar la posición y niveles de ingresos de aquellos trabajadores que pueden perder su empleo a la llegada de la correspondiente edad de jubilación.
En esa clave, la jurisprudencia del Tribunal Constitucional ha admitido expresamente la constitucionalidad de este tipo de cláusulas, sin compatibilidad en particular con el derecho al trabajo constitucionalmente reconocido. Eso sí, estableciendo el propio Tribunal Constitucional las debidas cautelas y requisitos, especialmente a los efectos de exigir que, de un lado, dichas cláusulas queden enmarcadas dentro de un marco más general garantizador de una política de empleo efectiva, y, de otro lado, que asegure la debida percepción de la pensión de jubilación del sistema público de Seguridad Social para quien sufra la pérdida de empleo a edad avanzada a resultas de las presentes cláusulas negociales (SsTC 58/1985, de 30 de abril, BOE de 5 de junio; 95/1985, de 29 de julio, BOE de 14 de agosto; 280/2006, de 9 de octubre, BOE de 16 de noviembre; y 341/2006, de 11 de diciembre, BOE de 16 de enero de 2007).
Con una orientación similar desde la perspectiva del Derecho de la Unión Europea a la igualdad de trato también se ha admitido la compatibilidad de este tipo de cláusulas convencionales en relación con la jubilación obligatoria de los trabajadores de edad avanzada. (Por todas, SsTJUE de 12 de octubre de 2010, asunto Rosenblat C-45/09; 13 de septiembre de 2011, asunto ReinhardPrigge, Michael Fromm, VolkerLambach/Deutsche Lufthansa AG, C-447/09).
La regulación contenida en el Estatuto de los Trabajadores hasta la reforma de 2012 constituía un ejemplo paradigmático del esfuerzo de equilibrio de todos los intereses y objetivos en juego, incorporando plenamente el espíritu y las concretas exigencias determinadas por nuestra jurisprudencia constitucional. En concreto, dicha disposición adicional 10ª establecía lo siguiente:
“10.ª Cláusulas de los convenios colectivos referidas al cumplimiento de la edad ordinaria de jubilación.— En los convenios colectivos podrán establecerse cláusulas que posibiliten la extinción del contrato de trabajo por el cumplimiento por parte del trabajador de la edad ordinaria de jubilación fijada en la normativa de Seguridad Social, siempre que se cumplan los siguiente requisitos:
a) Esta medida deberá vincularse a objetivos coherentes con la política de empleo expresados en el convenio colectivo, tales como la mejora de la estabilidad en el empleo, la transformación de contratos temporales en indefinidos, el sostenimiento del empleo, la contratación de nuevos trabajadores o cualesquiera otras que se dirijan a favorecer la calidad del empleo.
b) El trabajador afectado por la extinción del contrato de trabajo deberá tener cubierto el periodo mínimo de cotización que le permita aplicar un porcentaje de un 80 por ciento a la base reguladora para el cálculo de la cuantía de la pensión, y cumplir los demás requisitos exigidos por la legislación de Seguridad Social para tener derecho a la pensión de jubilación en su modalidad contributiva.
Se habilita al Gobierno para demorar, por razones de política económica, la entrada en vigor de la modificación prevista en esta disposición adicional”.
Con un giro copernicano la reforma laboral objeto de impugnación parcial por medio del presente recurso, a través de la Ley 3/2012, procede a reformular la mencionada disposición adicional 10ª, en términos tales que a través de la misma ahora se pretende prohibir cualquier tipo de cláusulas en los convenios colectivos sobre el particular. En concreto, ahora dicha disposición adicional viene a establecer lo siguiente:
“Disposición adicional décima. Cláusulas de los convenios colectivos referidas al cumplimiento de la edad ordinaria de jubilación. Se entenderán nulas y sin efecto las cláusulas de los convenios colectivos que posibiliten la extinción del contrato de trabajo por el cumplimiento por parte del trabajador de la edad ordinaria de jubilación fijada en la normativa de Seguridad Social, cualquiera que sea la extensión y alcance de dichas cláusulas”.
Como puede observarse, se trata de una prohibición absoluta y sin ningún tipo de excepción, impide entrar a los negociadores a pactar nada sobre esta materia, circunstancia que por tal motivo lesiona de manera flagrante el derecho a la negociación colectiva reconocido constitucionalmente. Debe destacarse que la novedad no se incluía en el texto del Real Decreto-Ley 3/2012, del que trae su origen la impugnada Ley 3/2012, al extremo que el cambio se incorpora a través de una enmienda de última hora en la tramitación parlamentaria del texto legal, lo que determina en concreto que no sea posible identificar directamente las razones o motivos que provocan tan rotundo cambio en la regulación de la materia; en particular, nada de ello se recoge en el preámbulo de la Ley, lo que llama poderosamente la atención a la vista de lo tajante de la prohibición legal y del cambio tan profundo verificado respecto de lo que estaba fuertemente consolidado en nuestra legislación laboral y en la propia práctica asentada de la negociación colectiva.
A partir de la constatación de que la jurisprudencia constitucional ha consagrado el criterio de la viabilidad constitucional de que la negociación colectiva aborde estas materias, sin por ello afectar a reglas de orden público y con plena compatibilidad con el derecho constitucional a la negociación colectiva, deben concurrir razones de peso, objetivas y proporcionadas que justifiquen una prohibición tan absoluta como la que se contempla en el texto objeto de impugnación. Existiendo un lícito interés de la negociación colectiva a marcar líneas de política de empleo en esta materia, así como de propiciar la adaptación de las dimensiones de las empresas por esta vía, queda fundado que los convenios colectivos puedan abordar dicha materia con apoyo en el derecho constitucional a la negociación colectiva. Las paralelas políticas dirigidas a propiciar la prolongación en la vida activa de la población de edad avanzada junto con la garantía de ingresos económicos de subsistencia para quienes se pudieran jubilar por estas vías puede justificar el establecimiento de límites de mayor o menor intensidad a tales cláusulas de los convenios colectivos, con condiciones más o menos estrictas a las mismas, impuestas por parte del legislador estatal, pero no fundamenta ni objetiva ni proporcionadamente una prohibición absoluta de este tipo de cláusulas, en los términos en los que lo hace la Ley 3/2012, so pena de incurrir en una directa vulneración del artículo 37.1 de la Constitución. Una prohibición absoluta de abordar una materia de carácter laboral sólo puede quedar justificada por razones objetivas de orden público laboral, que impidan hacer nada a la negociación colectiva; razón de orden público que no concurre en este caso, siendo prueba de ello que el Tribunal Constitucional ha admitido la posibilidad de que los convenios colectivos aborden esta materia. Los objetivos de prolongación de la edad laboral pueden justificar el establecimiento de importantes limitaciones a este tipo de cláusulas convencionales, pero no una prohibición radical y total, especialmente cuando tiene todo su sentido la introducción de estos mecanismos de distribución de empleo y encuentra su fundamento constitucional en las políticas de empleo y de distribución personal de la renta más equitativa. Dicho de otro modo, la fórmula de la reforma de 2012 produce un desequilibrio y, por tanto, rompe con el criterio de la proporcionalidad en el contraste de intereses entre los diversos derechos constitucionalizados, en este caso en perjuicio y con vulneración del derecho a la negociación colectiva del artículo 37 de la Constitución.
A mayor abundamiento, debe tenerse en cuenta que en paralelo la legislación laboral habilita a las empresas para que procedan hoy en día a acometer medidas de reestructuración del empleo por la vía de despidos colectivos, que como resultado provoquen la extinción de los contratos de trabajo del personal de la empresa que ha alcanzado la edad ordinaria de jubilación, a través de un criterio selectivo de los afectados por estas regulaciones de empleo que opte por el despido de este grupo de trabajadores de la plantilla de la empresa. Se trata, por añadidura de una práctica muy extendida en nuestro sistema laboral, sin que el mismo haya recibido en ningún momento tacha alguna por tratamiento discriminatorio. Pues bien, a los efectos que nos interesa resaltar desde la perspectiva que estamos analizando es que, a través de una lectura de conjunto y sistemática del ordenamiento laboral, se aprecia una falta total de coherencia en el modelo legal, que permite acometer al empresario medidas unilateralmente que se le prohíben a la negociación colectiva a través de cláusulas en los convenios que provoquen efectos similares, de modo que se limita injustificadamente el derecho a la negociación colectiva en una materia que sin embargo se permite con amplitud al empleador a través del ejercicio de sus poderes de dirección unilaterales. En estos términos cabría afirmar que la diferencia de tratamiento no sólo lesiona el artículo 37 sino igualmente la prohibición de tratamiento discriminatorio del artículo 14 de la Constitución, por cuanto que se limita injustificadamente la actividad sindical para materia que se permite unilateralmente al empresario.
Más aún, el resultado final en el que se desemboca es de una tutela inferior de los trabajadores afectados, que pierden su empleo a través de estos procesos de regulación de empleo, pues mientras que las cláusulas de los convenios colectivos en materia de jubilación conforme a la jurisprudencia constitucional deben garantizar que las mismas se insertan dentro de una política de empleo y de un aseguramiento de ingresos de subsistencia por medio de la correspondiente pensión pública a favor de los trabajadores de edad avanzada que extinguen su contrato de trabajo, nada de esto se garantiza cuando es el empresario unilateral por la vía de los despidos colectivos provoca idénticos efectos de pérdida de empleo del mismo tipo de trabajadores.
Por otra parte, también es posible que, en el marco de los procedimientos de regulación de empleo, en el curso de la consulta con los representantes de los trabajadores, se alcance un acuerdo colectivo por medio del cual se reduzca el empleo en la correspondiente empresa que dé como resultado la extinción de los contratos de trabajo del personal de edad avanzada que los aboque a su jubilación. En estos términos, el legislador permite que se haga por vía de acuerdo de empresa lo que no permite a través de cláusulas en los convenios colectivos. Carece por completo de fundamento objetivo esta diferencia de tratamiento entre acuerdos de empresa y convenios colectivos en esta materia, una vez más cuando las exigencias para los convenios colectivos serían más garantistas en el marco de una política de empleo y de tutela de los perjudicados, con lo cual de nuevo se constata la palpable vulneración del derecho constitucional a la negociación colectiva previsto en el artículo 37.1 de la Constitución, una vez más en conexión con la libertad sindical del artículo 28.1 y la prohibición de tratamiento discriminatorio del artículo 14, ambos del texto constitucional.
Conviene también resaltar que la intensidad de la prohibición contenida en la disposición adición 10ª del Estatuto de los Trabajadores resulta tan universal que no sólo llega a prohibir las cláusulas más típicas de extinción del contrato de la población de edad más avanzada. En particular, nos interesa llamar la atención sobre el hecho de que la norma no sólo prohíbe las cláusulas que de manera directa y automática provoquen la extinción contractual de tales trabajadores, sino cualesquiera otras que con diversas técnicas de “soft law” incorporen mecanismos de fomento o incentivo a la extinción voluntaria del contrato de trabajo por parte de estos trabajadores. Téngase presente que conforme a la redacción del texto legal impugnado lo que se prohíben son las cláusulas de los convenios que “posibiliten la extinción” y no exclusivamente las cláusulas que “provoquen” la extinción o término gramaticalmente similar. La presencia de este tipo de reglas de fomento o incentivo ya ni siquiera podría afirmarse que provocan la más mínima limitación del derecho al trabajo constitucionalmente reconocido, con lo cual ni siquiera se trata ya de un juego equilibrado de los diferentes derechos constitucionalmente reconocidos, sino de una directa lesión al contenido esencial de un derecho constitucional (artículo 37.1 Constitución) sin justificación en otro derecho constitucionalizado al que se pretende tutelar.
Finalmente, cabe llamar la atención sobre el particular efecto que provoca esta regla prohibitiva en el ámbito del empleo público. Nos referimos a la circunstancia peculiar que se produce en este ámbito, donde la jubilación forzosa del personal laboral sometido a contrato de trabajo al servicio de las Administraciones Públicas y, en general, de todo el sector público, se produce hoy en día exclusivamente a tenor de las presentes cláusulas de jubilación establecidas a través de los convenios colectivos, mientras que por contraste los funcionarios públicos se rigen por un sistema de jubilación obligatoria por imperativo legal. A resultas de ello, a partir de la reforma laboral introducida por la Ley 3/2012 en esta materia, mientras que existe un sistema generalizado de jubilación obligatoria de aquellos empleados públicos que tienen la condición de funcionarios públicos, se impide en paralelo que la negociación colectiva establezca un régimen similar para los empleados públicos que tienen la condición de personal laboral sometido a contrato de trabajo; con ello, se provoca una diferencia de tratamiento injustificada y carente de toda proporcionalidad, que desemboca en una relevante vulneración de la prohibición de tratamiento discriminatorio sancionada por el artículo 14 de la Constitución, sin olvidar tampoco la afectación al acceso a funciones públicas en condiciones de igualdad de los artículos 23.2 y 103.3 de la Constitución que tiene su proyección no sólo en el momento del ingreso en el empleo público sino también en el instante de la pérdida de la condición de empleado público.

6. Inconstitucionalidad del artículo 4.3 por vulneración de los artículos 35.1, 37.1 y 24.1 de la Constitución Española.

La previsión del artículo 4.3 de la Ley 3/2012, en virtud de la cual el contrato de apoyo a los emprendedores debe incorporar un periodo de prueba “de un año en todo caso”, vulnera tres preceptos constitucionales: el derecho al trabajo, consagrado en el artículo 35.1 de la Constitución e interpretado a la luz de los tratados y acuerdos internacionales ratificados por España ex artículo 10.2 de la Constitución; el derecho a la negociación colectiva reconocido por el artículo 37.1 de la Constitución; y el derecho a la tutela judicial efectiva del artículo 24.1 de la Constitución.
La jurisprudencia constitucional ha consagrado la causalidad en la extinción contractual por voluntad unilateral del empresario como concreción del derecho al trabajo (artículo 35.1 de la Constitución). De este modo, se tutela la estabilidad en el empleo del trabajador y, por efecto derivado, el efectivo ejercicio de los derechos laborales durante la vigencia del contrato, que se ven amenazados por un uso no justificado de la extinción por decisión empresarial.
Así, el Tribunal Constitucional ha señalado que la dimensión individual del derecho al trabajo se plasma, entre otras manifestaciones, “en el derecho a la continuidad o estabilidad en el empleo, es decir, a no ser despedidos si no existe una justa causa” (SsTC 22/1981, de 2 de julio, BOE 20 de julio; 192/2003, de 27 de octubre, BOE 26 de noviembre). El mismo Tribunal considera que “la inexistencia de una reacción adecuada contra el despido o cese debilitaría peligrosamente la consistencia del derecho al trabajo y vaciaría al Derecho que lo regula de su función tuitiva, dentro del ámbito de lo social como característica esencial del Estado de Derecho (artículo 1 CE)” (STC 20/1994, de 23 de febrero). Y, en este sentido, “esa reacción frente a la decisión unilateral del empresario…es uno de los aspectos básicos en la estructura de los derechos incluidos en ese precepto constitucional [se refiere al artículo 35.1] y a su vez se convierte en elemento condicionante para el pleno ejercicio de los demás de la misma naturaleza, como el…que garantiza la tutela judicial efectiva” (de nuevo, STC 20/1994, de 23 de febrero).
Cabe precisar, antes de nada, que esta regla de causalidad en los “despidos” no puede circunscribirse exclusivamente a la noción técnico-jurídica del “despido”, como resolución por voluntad del empleador basada en alguna de las causas previstas legalmente, sino que debe entenderse extensible a todas las manifestaciones de extinción contractual por decisión unilateral del empresario. De otro modo, bastaría al legislador ordinario la utilización formal de un calificativo distinto al despido en cualquier extinción contractual por voluntad unilateral del empresario para escapar del condicionamiento constitucional y, por ende, abriendo paso a un debilitamiento injustificado de la protección del derecho al trabajo tal cual éste viene tutelado por la Constitución; a la postre, lo relevante es la finalidad perseguida constitucionalmente con la exigencia del principio de causalidad y no la institución jurídica específica a través de la cual se puede poner en cuestión el mencionado principio. Naturalmente, todo ello con los matices que explicitaremos a continuación.
Como complemento a lo anterior, resulta igualmente relevante que la consagración constitucional de la causalidad en este tipo de supuestos extintivos venga reforzada por la normativa comunitaria e internacional. En primer lugar, hay que recordar que el artículo 30 de la Carta de los Derechos Fundamentales de la Unión Europea reconoce a los trabajadores el “derecho a protección en caso de despido injustificado, de conformidad con el Derecho de la Unión y con las legislaciones y prácticas nacionales”. Tal reconocimiento tiene, según el artículo 6.1 del Tratado de la Unión Europea, el mismo valor jurídico que los Tratados; pero sobre todo supone, en palabras del Tribunal Constitucional (Declaración 1/2004, 13 de diciembre), que la citada Carta de Derechos Fundamentales “por obra de lo dispuesto en el artículo 10.2 CE [debe] erigirse, tras su integración en el Ordenamiento español, en pauta para la interpretación de ‘las normas relativas a los derechos fundamentales y a las libertades públicas”. Una apreciación que sin duda reafirma la presencia, en la lectura del derecho al trabajo del artículo 35.1 de la Constitución, de ese elemento de causalidad en la extinción contractual por decisión empresarial.
Y, en segundo lugar, debe también hacerse referencia al Convenio número 158 de la Organización Internacional del Trabajo sobre la terminación de la relación de trabajo, ratificado por España el 26 de abril de 1985. Sin perjuicio de lo que enseguida se dirá sobre el periodo de prueba, su artículo 4 garantiza en el mismo sentido el derecho del trabajador a no ser privado de su trabajo sin “una causa justificada relacionada con su capacidad o su conducta, o basada en las necesidades de funcionamiento de la empresa, establecimiento o servicio”. Y, en esta línea, el artículo 9.1 del mismo Convenio reconoce expresamente la facultad de un “organismo externo” pueda “examinar las causas invocadas para justificar la terminación de la relación de trabajo y todas las demás circunstancias relacionadas con el caso, y para pronunciarse sobre si la terminación estaba justificada”.
Dicho esto, el periodo de prueba se presenta legalmente como una excepción al principio de causalidad en la terminación contractual por voluntad del empresario; excepción que queda justificada y se presenta como compatible con los condicionamientos constitucionales en la medida en que se orienta a un concreto objetivo consustancial a la esencia de la institución. Como es sabido, la esencia de este pacto no es otra que la comprobación por parte empresarial de las actitudes y aptitudes profesionales del trabajador en la fase inicial del contrato, una facultad que derivaría en última instancia de la libertad de empresa reconocida por el artículo 38 de la Constitución.
Pero como tal regulación excepcional, su aplicación exige siempre que la misma resulte objetiva y proporcionada al fin perseguido, sin desnaturalizar la institución; es decir, sin regular una apariencia de periodo de prueba al mero objeto de exonerar al empresario durante un determinado tiempo de justificar su decisión unilateral. Objetividad y proporcionalidad que requiere inexorablemente, por estos motivos, una duración razonable; que exigiría que la duración del periodo de prueba sea, en expresión del Convenio 158 de la OIT, “razonable”. Lo cierto es que la previsión del artículo 4.3 de la Ley 3/2012, según la cual esta duración “será de un año en todo caso” en los contratos de apoyo a los emprendedores, desconoce esa vocación de temporalidad y provisionalidad consustancial al citado pacto, estableciendo una duración de todo punto desvinculada de la finalidad para la que se concibe la institución de la prueba. Revela así una falta de objetividad y de proporcionalidad que desvirtúa la causalidad exigible a las decisiones extintivas del empresario y con ello transgrede el derecho al trabajo consagrado en el artículo 35.1 de la Constitución.
No puede apreciarse objetividad en esta medida, por cuanto que la duración de un año del periodo de prueba en esta modalidad contractual de apoyo a los emprendedores se desvincula del elemento más característico de esta institución: la constatación en la práctica de las aptitudes profesionales y de la adaptación al puesto de trabajo del trabajador contratado. Varios argumentos refuerzan esta consideración.
·                    En primer lugar, la indisponibilidad sobre la duración del periodo de prueba (“un año en todo caso”) implica, entre otras cosas, su desconexión total con el tipo de puesto de trabajo y las tareas correspondientes a realizar, así como con la titulación profesional del trabajador. Son circunstancias que, por el contrario, se antojan decisivas para la concreción de la duración de ese pacto dada la finalidad y funciones del periodo de prueba, y su vocación de provisionalidad. De hecho, así se refleja en la regulación “general” sobre el periodo de prueba recogida en el artículo 14 del Estatuto de los Trabajadores que prevé una extensión temporal diferente en función del nivel formación exigido a los trabajadores para el desempeño de las actividades profesionales objeto del contrato celebrado.
·                    En segundo lugar, si con el artículo 4.3 de la Ley 3/2012 el legislador ha pretendido utilizar el periodo de prueba como una medida de fomento de la contratación, hay que subrayar que esa finalidad es ajena a la institución de la prueba y a la libertad de desistimiento empresarial. Es cierto que, en sí misma tal finalidad no desvirtúa el sentido de este pacto si fuera un elemento adicional a su objetivo, pero sí cuando lo sustituye; es decir, prescindir por completo del objetivo esencial de esta institución –la comprobación de las aptitudes y actitudes profesionales del trabajador, se insiste– lo desnaturaliza. En este sentido, tal apreciación no se ve atenuada por el actual contexto de dificultades económicas, ni siquiera por la previsión legal que vincula la posibilidad de realizar este tipo de contratos al mantenimiento de una tasa de desempleo superior al 15% (Disposición Transitoria Novena de la Ley 3/2012). Por el contrario esta regla de justificación de la aplicación transitoria de la medida es justamente demostrativa de que la exención de la exigencia de la causalidad del despido no se conecta en modo alguno con la finalidad del período de prueba del mencionado contrato. Y ello, precisamente, porque nada tienen que ver con ese elemento nuclear del periodo de prueba, que resulta imprescindible para justificar la excepción al principio de causalidad de la extinción contractual.
·                    En tercer lugar, se ha de reparar también en los efectos que se derivan de una previsión legal como ésta: un periodo de prueba de un año, con la consiguiente facultad empresarial de desistimiento acausal, supone que durante ese tiempo no existe ninguna protección para el trabajador frente a la decisión extintiva unilateral del empresario. Y esto, más allá de favorecer una rotación continua en el mismo puesto de trabajo y desequilibrar la relación laboral, vulnera el principio de estabilidad en el empleo y la causalidad de la extinción contractual derivados del derecho al trabajo. A la postre, a cualquier empresario le resultaría más favorable celebrar un contrato indefinido con este período de prueba, que cualquier otro contrato temporal causal previsto por menos de un año. Dicho de otro modo, a resultas de este mecanismo, por absurdo que resulte, la contratación temporal causal acaba proporcionando al trabajador mayor tutela de la estabilidad en el empleo del trabajador que un contrato indefinido con periodo de prueba tan prolongado.
Junto a la falta de justificación objetiva del periodo de prueba de un año del contrato de apoyo a los emprendedores del artículo 4.3 de la Ley 3/2012, tampoco puede apreciarse proporcionalidad en la medida. En general, no parece razonable admitir que el empresario necesite de un periodo de prueba tan largo para advertir la capacitación profesional; al menos no es así en la mayoría de actividades lo que casa mal con la imposición de una duración única y universal (“en todo caso”) que no atiende en absoluto a las características del puesto de trabajo ni del trabajador. Baste con recordar que la duración máxima prevista legalmente para los trabajadores de mayor cualificación profesional, los técnicos titulados, se sitúa en los seis meses de duración (art. 14.1 del Estatuto de los Trabajadores), lo cual demuestra a las claras la ausencia de proporcionalidad de la regla aquí objeto de impugnación. Por eso cabe concluir que un año como periodo de prueba es un tiempo excesivo, por desnaturalizador de la figura y ocultamiento de lesión al derecho del trabajo constitucionalmente tutelado, dado que durante ese tiempo el empresario está facultado para rescindir la relación laboral sin causa ni coste alguno.
Tal juicio crítico no se ve desvirtuado por la existencia de algunas restricciones a esta regulación, como la imposibilidad de establecer ese periodo de prueba “cuando el trabajador haya desempeñado las mismas funciones con anterioridad en la empresa, bajo cualquier modalidad de contratación” (mismo artículo 4.3), como la prohibición de suscribir este tipo de contrato que afecta a “la empresa que, en los seis meses anteriores a la celebración del contrato, hubiera adoptado decisiones extintivas improcedentes” (artículo 4.6), o como la existencia de incentivos económicos para la prolongación de ese contrato durante al menos tres años (artículo 4.7). Y ello por las siguientes razones:
De un lado, resulta más que ilustrativo recordar que, frente a esa duración de un año en el contrato de apoyo a emprendedores, la regulación  “general” del periodo de prueba prevista en el vigente artículo 14.1 del Estatuto de los Trabajadores establece, en defecto de convenio colectivo, una duración no superior a seis meses para los trabajadores de más alta cualificación profesional y de dos o tres meses, según el tamaño de la empresa, para el resto de trabajadores. Así pues, en todos los casos se trata de referencias temporales manifiestamente inferiores al año que impone el artículo 4.3 de la Ley 3/2012.
De otro lado, debe además tenerse en cuenta que la posibilidad de celebrar este tipo de contratos de apoyo a los emprendedores se circunscribe a las empresas con menos de cincuenta trabajadores. Se trata, por tanto, de un ámbito empresarial en el que se produce un contacto más directo y personal entre los trabajadores y la dirección de la empresa, lo que permite a ésta un conocimiento más inmediato y preciso de las carencias e insuficiencias profesionales de los trabajadores contratados. Por eso, difícilmente presenta objetividad y proporcionalidad tal diferencia: la fijación de un periodo de prueba de mayor duración para las pequeñas empresas respecto de las grandes resulta injustificada y manifiestamente desproporcionada.
Semejante argumento no debe verse empañado por que el artículo 14.1 del Estatuto de los Trabajadores prevea que el periodo de prueba para los trabajadores que no sean técnicos titulados se extienda de dos a tres meses en el caso de empresas con menos de veinticinco trabajadores. Sin entrar en la posible incoherencia de esta previsión legal, lo relevante es que la regulación “general” establecida en el artículo 14.1 del Estatuto de los Trabajadores para todas las empresas –incluidas, desde esta perspectiva, las de mayor tamaño– se ve ampliamente superada por lo previsto en el artículo 4 de la Ley 3/2012. Se trata de una diferencia excesiva, desproporcionada, y no se aprecia más justificación que la voluntad de actuar como incentivo al empleo, algo que ya ha sido analizado y rechazado anteriormente.
Finalmente, esa apreciación de falta de proporcionalidad también deriva de la interpretación restrictiva que de la salvedad convencional del artículo 14.1 del Estatuto de los Trabajadores –“a los límites de duración que, en su caso, se establezcan en los Convenios Colectivos”– ha realizado el Tribunal Supremo. En concreto, éste ha considerado desproporcionado por abusivo un periodo de prueba de un año si no se acreditan las razones que justifiquen un tiempo tan dilatado para la comprobación de las actitudes y aptitudes profesionales de un trabajador en el desempeño de un puesto de trabajo (SsTS 20 julio 2011, rec. 152/2010; y 12 noviembre 2007, rec. 4346/2006). Una línea argumentativa también compartida por el Comité de la OIT encargado de examinar en esta materia específica el cumplimiento del Convenio 158 sobre la terminación de la relación de trabajo por parte del contrat nouvelles embauches del ordenamiento jurídico francés.
Aún hay argumentos adicionales que refuerzan la escasa razonabilidad por falta de objetividad y de proporcionalidad de la medida cuestionada y que, todavía más grave, ponen de manifiesto la vulneración de otros derechos constitucionales: los consagrados en los artículos 24.1 y 37.1 de la Constitución.
Sobre este último, cabe señalar que la fijación del periodo de prueba en el artículo 4.3 de la Ley 3/2012 resulta demasiado rígida. La previsión de que su duración sea de un año “en todo caso” convierte esta materia en indisponible, lo que impide a la negociación colectiva establecer duraciones diferentes del periodo de prueba que permitieran la adaptación de su régimen a las peculiaridades de cada sector o empresa. Esta indisponibilidad no sólo desvirtúa la función esencial del periodo de prueba rompiendo el equilibrio de intereses que debe presidir este tipo de pactos, sino que en cuanto limitación evidente –sin aparente razón que la justifique– de la autonomía de los representantes de los empresarios y trabajadores constituye una vulneración del derecho constitucional a la negociación colectiva reconocido por el artículo 37.1 de la Constitución. Baste aquí con dar por reproducidas las consideraciones y argumentaciones realizadas en el apartado precedente respecto del alcance constitucional del derecho a la negociación colectiva por lo que se refiere a la libre decisión de los negociadores de negociar libremente sobre las materias que estimen oportunas. Las reflexiones que se efectuaron en el apartado relativo a las cláusulas de jubilación en los convenios colectivo y su arrope constitucional son trasladables mutatis muntandi a la fijación de duraciones alternativas del periodo de prueba.
Igualmente se aprecia una transgresión del derecho a la tutela judicial efectiva del artículo 24.1 de la Constitución. La configuración concreta del periodo de prueba en la modalidad contractual de apoyo a emprendedores supone reconocer que durante esos doce meses el empresario tiene plena capacidad de desistimiento, con dos características particulares.
Una es que el trabajador afectado carece de capacidad de reacción frente la decisión empresarial extintiva, sin causa o con causa insuficiente. Ello en sí mismo basta para considerar que se está impidiendo el control por parte de los jueces y tribunales que deriva del derecho a la tutela judicial efectiva (por todas, SsTC 68/1983, de 26 de julio y 99/1985, de 30 de septiembre). Pero es la otra característica la que apuntala tal apreciación.
En efecto, la segunda particularidad es que ese desistimiento contractual por parte del empresario no lleva aparejado ningún tipo de resarcimiento para el trabajador. Cabría cuestionarse si la previsión de una satisfacción extrajudicial –la percepción de una indemnización como consecuencia de la extinción, por ejemplo– podría ser considerada una alternativa aceptable a la tutela judicial. Pero no es ni siquiera este el caso: no existe tal alternativa ni, como se ha podido comprobar, ninguna otra razón que justifique la restricción del derecho a la tutela judicial efectiva del artículo 24.1 de la Constitución que, por todo ello, debe considerarse vulnerado por el artículo 4.3 de la Ley 3/2012.
A la postre, la ausencia de indemnización en estos supuestos vuelve a colocar en posición de mayor debilidad al trabajador contratado de forma indefinida con período de prueba tan prolongado comparativamente con un trabajador vinculado a través de un contrato de trabajo temporal causal, que sí tiene con carácter general derecho a la percepción de una indemnización a la finalización del contrato, por muy fundada y lícita que sea la resolución contractual en este otro caso. Ello deriva en una diferencia de tratamiento injustificada entre trabajadores indefinidos con periodo de prueba y trabajadores contratados temporalmente, que más allá de la formalidad jurídica, se encuentran en la empresa incorporados en una posición sociológica similar, lo que avala poder afirmar que con ello también desde esta otra perspectiva se vulnera la prohibición de tratamiento discriminatorio tal como se encuentra establecida en el artículo 14 de la Constitución. Tan es así, que este elemento redunda en el resultado ya apuntado de unas más amplias libertades extintivas en los contratos formalmente indefinidos con periodo de prueba tan prolongados, respecto de los contratos temporales causales.
Si se quiere dicho de otro modo, el mecanismos legal así ideado materialmente no hace otra cosa que diseñar, bajo las apariencias de un contrato indefinido, un contrato temporal acausal sometido a libre desistimiento durante todo un año; por tanto, rompiendo con las exigencias de causalidad en la contratación temporal, elemento de causalidad éste último que necesariamente conecta también con la exigencia contractual de causalidad del despido; a la postre, la introducción de modalidades de contratación temporal, no constituye otra cosa que un vía adicional más al conjunto de las contempladas legalmente de extinción contractual, que si no se encuentra debidamente fundada y justificada provoca la correspondiente lesión del derecho al trabajo tal como éste se encuentra constitucionalmente tutelado.

7. Inconstitucionalidad del artículo 18.Tres por vulneración de los artículos 35.1 y 24.1 de la Constitución Española. Causalidad del despido por motivos empresariales

El artículo 18.Tres de la citada Ley 3/2012, modifica el artículo 51.1 del Estatuto de los Trabajadores –y por extensión el artículo 52, c) del Estatuto de los Trabajadores– en diversos aspectos. Entre ellos, aquí se cuestionan los nuevos términos en los que se definen las causas económicas, técnicas, organizativas o de producción que justifican el recurso a las modalidades extintivas colectiva y objetiva reguladas, respectivamente, en los citados preceptos. Es decir, la causalidad del despido por motivos empresariales.
En concreto, esta nueva regulación contenida en el artículo 18.Tres prescinde del elemento de causalidad en la delimitación de estos motivos económicos y empresariales para el despido, vulnerando así el derecho al trabajo del artículo 35.1 de la Constitución. Y, como efecto derivado, al impedir el control judicial de esa causalidad del despido, atenta igualmente contra el derecho a la tutela judicial consagrado por el artículo 24.1 de la Constitución.
La vigente redacción del artículo 51.1 del Estatuto de los Trabajadores mantiene la caracterización diferenciada de las causas económicas, de un lado, y de las causas técnicas, organizativas y de producción, de otro, como presupuestos para los despidos colectivos y, por extensión, para los despidos por causas objetivas del apartado c) del artículo 52 del Estatuto de los Trabajadores. Pero el artículo 18.Tres de la Ley 3/2012 introduce en la misma cambios trascendentales que transgreden el marco constitucional que deben respetar este tipo de decisiones empresariales extintivas.
Por lo que se refiere a las causas económicas, tras señalar que se aprecia su concurrencia “cuando de los resultados de la empresa se desprenda una situación económica negativa, en casos tales como la existencia de pérdidas actuales o previstas, o la disminución persistente de su nivel de ingresos ordinarios o ventas”, el artículo 51.1 ET ahora incorpora dos novedades principales. La primera es la previsión de que “(e)n todo caso, se entenderá que la disminución es persistente si  durante tres trimestres consecutivos el nivel de ingresos ordinarios o ventas de cada trimestre es inferior al registrado en el mismo trimestre del año anterior”. Mientras que la segunda consiste en la eliminación del relevante inciso que hasta la Ley 3/2012 señalaba que “(a) estos efectos, la empresa tendrá que acreditar los resultados alegados y justificar que de los mismos se deduce la razonabilidad de la decisión extintiva para preservar o favorecer su posición competitiva en el mercado”.
Por su parte, la orientación de las previsiones legales en torno a las causas técnicas, organizativas o de producción es coincidente con la que se acaba de describir. Así, el artículo 18.Tres de la Ley 3/2012 mantiene, casi inalterada, su caracterización básica según la cual “(s)e entiende que concurren causas técnicas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los medios o instrumentos de producción; causas organizativas cuando se produzcan cambios, entre otros, en el ámbito de los sistemas y métodos de trabajo del personal o en el modo de organizar la producción y causas productivas cuando se produzcan cambios, entre otros, en la demanda de los productos o servicios que la empresa pretende colocar en el mercado”.
Pero, de nuevo, lo más relevante es que se elimina la previsión de que “(a) estos efectos, la empresa deberá acreditar la concurrencia de alguna de las causas señaladas y justificar que de las mismas se deduce la razonabilidad de la decisión extintiva para contribuir a prevenir una evolución negativa de la empresa o a mejorar la situación de la misma a través de una más adecuada organización de los recursos, que favorezca su posición competitiva en el mercado o una mejor respuesta a las exigencias de la demanda”.
Pues bien, sobre esta caracterización legal de las causas económicas y empresariales de los despidos colectivo y objetivo cabe hacer dos consideraciones que han de fundamentar el razonamiento acerca de la inconstitucionalidad de esta nueva regulación.
En primer lugar, puede afirmarse que la nueva redacción del artículo 51.1 del Estatuto de los Trabajadores vacía de contenido las causas económicas y empresariales descritas, en la medida en que se limita a identificar dichas causas con simples hechos, eliminando el juicio de razonabilidad. Tal como expresivamente reconoce el Preámbulo de la Ley 3/2012, el planteamiento seguido es que la justificación de este tipo de despidos responde a la constatación de “la concurrencia de unos hechos: las causas”. Ello resulta particularmente claro en el supuesto del despido por causas económicas por disminución persistente de ingresos o ventas: ahora el citado artículo precisa qué hay que entender por tal –que durante nueve meses consecutivos el nivel de ingresos ordinarios o ventas sea inferior al registrado en el mismo trimestre del año anterior–, con la singularidad de que si se dan tales circunstancias nos encontramos ante una situación económica negativa y, eliminado el control de la razonabilidad, existe en consecuencia una causa económica para despedir.
La segunda consideración es que, de este modo, el legislador persigue el automatismo en la aplicación de las causas legalmente definidas para hacer frente a lo que el Preámbulo de la Ley 3/2012 identifica como “elementos de incertidumbre” que han llevado a los tribunales en el pasado a realizar “juicios de oportunidad relativos a la gestión de la empresa”.
Sin entrar a valorar la motivación del legislador, el resultado es que la nueva regulación en su intento por restringir la actuación de los tribunales parece olvidar dos cosas. De un lado, que la delimitación legal de las causas es muy vaga, particularmente cuando se refiere a los cambios empresariales. Con la única excepción de la referencia a la disminución persistente de ingresos o ventas, se recurre a fórmulas ejemplificativas –repárese en las expresiones “en casos tales como” o “entre otros [cambios]”– que aportan poca certidumbre, con el agravante mencionado de que se elimina formalmente la referencia a la razonabilidad de la decisión extintiva.
Pero aún más relevante es, de otro lado, que no se tenga en cuenta que los hechos no constituyen por sí mismos causas si no vienen acompañados de un nexo o elemento de instrumentalidad que ponga en relación el supuesto fáctico antecedente –la situación económica negativa, por ejemplo– con el efecto o resultado –el despido–. Lo que, en otras palabras, significa que el anhelado automatismo en la aplicación de las causas se impone legalmente a costa de eliminar el elemento de causalidad que caracteriza al despido –que hasta ahora podía considerarse presente a través de la apelación a la razonabilidad de la medida–, haciendo imposible su encaje constitucional.
El punto de partida de la argumentación de esta denuncia de inconstitucionalidad coincide con el del apartado anterior. Como hemos visto, el artículo 35.1 de la Constitución consagra el principio de causalidad en la extinción contractual por voluntad del empresario como derivación del derecho al trabajo. No es necesario reiterar la jurisprudencia constitucional que respalda esta interpretación a la luz de los convenios y tratados internacionales ratificados por España (artículo 10.2 de la Constitución), pero sí cabe resaltar algunos aspectos relacionados con la normativa internacional.
Ya se ha dicho que la causalidad del despido viene garantizada por el Convenio 158 de la Organización Internacional del Trabajo sobre la terminación de la relación de trabajo. Su artículo 4 exige una “causa justificada” para poner término a la relación laboral, entre las cuales se incluye la  “basada en las necesidades de funcionamiento de la empresa, establecimiento o servicio”. Como también se apuntaba, el artículo 9.1 se refiere a la facultad de examinar las causas invocadas en la terminación para valorar su justificación. Lo que ahora interesa resaltar es que el apartado 3 de ese mismo artículo 9 reconoce expresamente también en estos casos la facultad “para verificar si la terminación se debió realmente a tales razones”; algo significativo a estos efectos, por mucho que igualmente se añada que el modo en el que se ejerce ese control queda en manos de la legislación o práctica nacionales.
Lo anterior, unido a las consideraciones previamente realizadas en torno a la causalidad del despido como derivación del derecho constitucional al trabajo, permiten afirmar que cualquier regulación legal sobre la materia aquí analizada –los motivos económicos y empresariales que pueden justificar un despido– debe respetar todos los intereses constitucionales en juego; que son ciertamente los de la empresa, al amparo del artículo 38 de la Constitución, pero que también lo son los de los trabajadores, al amparo del artículo 35.1 de la Constitución.
Ello significa que, en virtud de esa protección constitucional, la causalidad del despido por motivos económicos y empresariales no sólo requiere que el legislador defina legalmente los supuestos de justificación material del despido, sino que adicionalmente exige una conexión lógica entre la situación objetiva en la que se encuentra la empresa y la decisión empresarial de reducción de empleo, así como la intensidad de esta última –número de trabajadores afectados–. Un nexo que, sin desconocer el margen de actuación discrecional con el que cuenta el empresario en virtud del artículo 38 de la Constitución, evita decisiones empresariales arbitrarias como límite infranqueable derivado del artículo 35.1 de la Constitución.
Así las cosas, la definición causal del despido basado en las necesidades de funcionamiento de la empresa –por utilizar la expresión de la OIT– no puede limitarse, como hace el artículo 51.1 del Estatuto de los Trabajadores, a la mera identificación de unas circunstancias objetivas de naturaleza empresarial como presupuesto para la adopción de medidas extintivas. El principio de causalidad del despido consagrado constitucionalmente va mucho más allá de la cláusula de automatismo derivado de la concurrencia de unos hechos que el citado precepto quiere imponer. En concreto, la causalidad exige en este caso una regulación legal en la que esas circunstancias con incidencia empresarial reúnan tres rasgos íntimamente relacionados y que han sido ignorados por el artículo 18.Tres de la Ley 3/2012.
En primer lugar, hay que señalar que no cualquier situación económica negativa o cambio empresarial equivalente es suficiente por sí mismo para justificar un despido: es necesario que ese tipo de circunstancias económicas o empresariales tengan una incidencia desfavorable en materia de empleo, es decir, que afecten negativamente a los contratos de trabajo suscritos por la empresa dificultando su mantenimiento por una pérdida sobrevenida de su función económico-social.
En segundo término, también se requiere que esas circunstancias objetivas con incidencia sobre la plantilla de la empresa tengan una dimensión estructural desde su perspectiva temporal, en el sentido de contar con suficiente entidad para justificar que, sin perjuicio de la posible adopción de otras medidas empresariales menos drásticas, el despido como amortización de puestos de trabajo pueda ser considerado una respuesta adecuada para hacer frente a esa situación de crisis de la empresa.
Y, por último, resulta asimismo exigible que la intensidad de la situación económica o cambio empresarial acreditado tenga conexión con el número de trabajadores a despedir. Con ello se trata de preservar el principio constitucional general de proporcionalidad; de manera que, sin cuestionar el margen de actuación discrecional de las empresas derivado del reconocimiento de la libertad empresarial en el artículo 38 de la Constitución, se pueda modular esa libertad de actuación.
Es evidente que ninguno de estos tres elementos se encuentra presente en la definición legal de los despidos por causas económicas, técnicas, organizativas o de producción, en la modalidad colectiva (artículo 51.1 Estatuto de los Trabajadores) y por extensión en la objetiva [artículo 52, c) Estatuto de los Trabajadores]. En este sentido, resulta particularmente significativa la omisión –en puridad, supresión– de toda referencia a la razonabilidad de la medida extintiva.
Así las cosas, cabe concluir que esta nueva regulación incorporada por la Ley 3/2012 elimina el principio de causalidad del despido inherente al derecho constitucional al trabajo y vulnera, por tanto, el artículo 35.1 de la Constitución. Y, dado que impide el control judicial de la causalidad del despido al circunscribir indirectamente la actuación de los tribunales a la constatación de la concurrencia de determinados hechos económicos o empresariales de manera aislada, el mismo artículo 51.1 del Estatuto de los Trabajadores vulnera también el derecho a la tutela judicial efectiva del ya aludido artículo 24 de la Constitución.

8.- Inconstitucionalidad de los artículos 18. Ocho y 23. Uno por vulneración de los artículos 35.1 y 14 de la Constitución Española. Tratamiento discriminatorio en el régimen de los salarios de tramitación

Los artículos 18.Ocho y 23.Uno de la Ley 3/2012, modifican el apartado 2 del artículo 56 del Estatuto de los Trabajadores y 110.1 de la Ley Reguladora de la Jurisdicción Social, respectivamente, relativos a los efectos del despido declarado improcedente. En particular, el aspecto objeto de impugnación es la previsión que para este tipo de supuestos establece que si el empresario opta por la readmisión del trabajador éste tendrá derecho a los salarios de tramitación, mientras que tal derecho no se reconoce cuando el empresario se decanta por el abono de la indemnización.
Se considera que el diseño legal de los efectos así diferenciados de la declaración de improcedencia de un despido, en el que se favorece la solución que extingue de manera definitiva la relación laboral vulnera el derecho al trabajo reconocido en el artículo 35.1 de la Constitución, una de cuyas manifestaciones es la estabilidad en el empleo. Además, desde esta perspectiva, se produce una diferencia de trato que vulnera el artículo 14 de la Constitución por discriminar a los empresarios que deciden readmitir al trabajador tras un despido improcedente y que, en consecuencia, deben pagarle los salarios de tramitación, obligación de la que quedan exentos los empresarios que ejercitan la opción consistente en el abono de la indemnización. Paralelamente, también se discrimina a los trabajadores despedidos de forma improcedente cuando el empresario opta por la indemnización, en lugar de la readmisión, quedando eximido sólo en aquel caso del pago de los citados salarios de tramitación.
La argumentación de este motivo de inconstitucionalidad debe salvar un obstáculo previo. Nos referimos al dato relativo a que el Real Decreto-ley 5/2002, 24 de mayo, de medidas urgentes para la reforma del sistema de protección por desempleo y mejora de la ocupabilidad, modificó los apartados 1 y 2 del artículo 56 en términos similares –en el aspecto aquí discutido– a los actualmente vigentes. Aunque la STC 68/2007, de 28 de marzo (BOE de 26 de abril) declaró la inconstitucionalidad y consecuente nulidad del citado Real Decreto-ley en su conjunto por vulneración del artículo 86.1 de la Constitución –lo que lógicamente afectaba también a aquella previsión legal específica–, no puede ignorarse que el contenido novedoso de ese artículo 56 del Estatuto de los Trabajadores dio lugar a la presentación de varios recursos de amparo ante el Tribunal Constitucional en los que éste tuvo ocasión de pronunciarse sobre la constitucionalidad de la previsión que en los despidos improcedentes circunscribía el pago de los salarios de tramitación a los supuestos en los que la empresa optaba por la readmisión del trabajador, excluyéndola en aquellos otros en los que elegía el abono de la indemnización. En los mencionados recursos se planteaba, entre otros motivos, que esa regulación podía vulnerar el derecho a la igualdad ante la ley, reconocido por el artículo 14 de la Constitución, al otorgar un tratamiento desigual a trabajadores que se encontraban en idéntica situación por haber sido despedidos de forma improcedente: percibían los salarios de tramitación en un caso –readmisión–, y no lo hacían en el otro –indemnización–.
Las SsTC 84/2008, de 21 de julio (BOE de 19 de agosto); 122/2008, de 20 de octubre (BOE de 21 de noviembre); y 143/2008, de 31 de octubre (BOE de 21 de noviembre) no apreciaron esa vulneración del artículo 14 de la Constitución. Y no lo hicieron por considerar como elemento clave que las situaciones comparadas no eran homogéneas –sino “radicalmente diferentes”, según las SsTC 84/2008, de 21 de julio y 122/2008, de 20 de octubre, “heterogéneas y no comparables”, según la STC 143/2008, de 31 de octubre– y que, en consecuencia, el tratamiento diferenciado estaba justificado. A juicio del Tribunal, nada tenía que ver el supuesto en el que el empresario optaba por la readmisión del trabajador con aquel otro en el que se decantaba por la indemnización: “En uno de los casos [el primero] se mantiene en vigor la relación laboral entre empresa y trabajador, entendiendo, a partir de la declaración de improcedencia del despido y de la opción por la readmisión, que dicha relación se ha mantenido igualmente en vigor, sin solución de continuidad, entre las fechas del despido y la readmisión. En el segundo de los casos, la relación laboral queda definitivamente extinguida con efectos de la fecha del despido” (STC 84/2008, de 21 de julio).
Sin embargo, el Tribunal parece obviar que esa posición dispar de los trabajadores, y de los empresarios, en uno y otro caso forma parte del tratamiento –respuesta–  jurídico de una situación previa que sí es homogénea: la falta de justificación del despido de un trabajador, esto es, la calificación de ese despido como improcedente. Y es que, en realidad, las situaciones que deben ser enjuiciadas a efectos de constatar su homogeneidad son las que derivan de esa declaración de improcedencia.
Quiere decirse con ello que la comparación que realiza el Tribunal a efectos de determinar si existe o no homogeneidad se realiza demasiado “tarde”, pues tiene lugar cuando ya se han delimitado, y por tanto diferenciado, las características de cada uno de los supuestos. Es decir, cuando de las situaciones, que son idénticas de partida –se trata de despidos declarados improcedentes–, se han empezado ya a derivar efectos a partir de la solución alternativa para el empresario de readmitir o indemnizar: en un caso el legislador entiende que la relación laboral no se ha llegado a extinguir; y en otro, que esa extinción es efectiva desde el día del cese en el trabajo.
Nada puede objetarse a que el legislador reconozca al empresario la facultad de optar entre readmisión e indemnización. Pero lo que no cabe es que un tratamiento objetivamente diferenciado –el pago o no de los salarios de tramitación– pretenda ampararse en los efectos legales concretos que ese legislador ha querido atribuir a cada una de las dos soluciones.
Por eso es importante resaltar que lo que equipara los dos supuestos es la declaración de improcedencia de un juez. A partir de aquí, puede considerarse que las soluciones ofrecidas por el ordenamiento legal ante la declaración de improcedencia de un despido –readmitir o indemnizar– son, en principio, equivalentes. Pero el problema se plantea cuando las consecuencias jurídicas derivadas de esas situaciones equiparables arrojan resultados que pueden estar vulnerando algún precepto constitucional. En este sentido, la eliminación de los salarios de tramitación en el caso de que se abone la indemnización es, sin duda, un modo efectivo de favorecer que el empresario se decante por esta opción antes que por la readmisión. Y ello, como en seguida se expone, tiene unas implicaciones en términos constitucionales –artículos 35.1 y 14 de la Constitución– que no se pueden desconocer.
Así pues, descartada la falta de homogeneidad de las situaciones derivadas de despidos improcedentes, podemos entrar a valorar si la decisión legal de excluir en todo caso el abono en los salarios de tramitación cuando el empresario opta por el pago de la indemnización se ajusta o no al marco constitucional.
Es evidente que la regulación establecida en el artículo 56, apartados 1 y 2, del Estatuto de los Trabajadores prevé un tratamiento diferenciado para los supuestos de declaración de improcedencia del despido en función de la opción empresarial. Como se ha dicho, la diferencia estriba en que, si la empresa opta por el abono de la indemnización, queda eximida del pago de los salarios de tramitación y de las correspondientes cotizaciones sociales; unas obligaciones que, por el contrario, debe soportar en caso de que decida readmitir al trabajador.
A nadie se oculta que las implicaciones de una y otra opción favorecen de forma clarísima la primera de ellas, esto es, el pago de la indemnización sin salarios de tramitación. Más allá de que esta solución refuerce los intereses empresariales –en cuanto supone un coste sensiblemente inferior– en detrimento de los intereses de los trabajadores –además del perjuicio económico directo, repárese en la incidencia que la falta de cotizaciones a la Seguridad Social pueden tener en el futuro en términos de protección–, la pregunta que resulta pertinente formular desde la perspectiva de constitucionalidad es si tal configuración legal de un trato desigual responde a una justificación objetiva y proporcionada (por todas, SsTC 200/2001, de 4 de octubre, BOE 6 de noviembre; y 88/2005, de 18 de abril, BOE 20 de mayo). Esto es, si cabe cuestionar en términos constitucionales que se perjudique a las empresas que optan por la readmisión de los trabajadores injustamente despedidos, frente a las que no lo hacen; o, lo que viene a ser equivalente, que la protección recibida por esos trabajadores que sufren un despido improcedente resulte inferior en los casos en los que la empresa opta por el abono de la indemnización.
Como consideración previa, y punto de partida, debe tenerse en cuenta que nos encontramos en el ámbito material del despido, por lo que resulta imprescindible tener muy presentes las implicaciones de la doctrina constitucional sobre el artículo 35.1 de la Constitución en el que se consagra el derecho al trabajo. Así, la jurisprudencia constitucional, a la luz del Convenio 158 de la OIT, reconoce que la dimensión individual del derecho al trabajo de ese artículo 35.1 de la Constitución incluye, entre otras manifestaciones, “el derecho a la continuidad o estabilidad en el empleo”, lo que tiene como reverso el derecho  “a no ser despedidos si no existe una justa causa” (SsTC 22/1981, de 2 de julio, 192/2003, de 27 de octubre; véase igualmente STC 20/1994, de 27 de enero).
No cabe duda de que la decisión legal de limitar los salarios de tramitación exclusivamente a los supuestos de readmisión favorece aquella solución, de entre las dos posibles para el empresario, que resulta menos respetuosa con el derecho al trabajo reconocido en el artículo 35.1 de la Constitución y del que deriva el principio de estabilidad en el empleo: esa en la que el empresario opta por la extinción definitiva de la relación laboral. Visto desde la perspectiva contraria, puede afirmarse que la tutela de la estabilidad en el empleo en caso de despido improcedente encontraría su expresión más pura ex artículo 35.1 de la Constitución en la posibilidad de que el trabajador se reincorporara a la empresa una vez declarada la ilicitud de la resolución contractual.
Lo cierto es que, pese a todo, la readmisión prevista en los artículos 56.2 del Estatuto de los Trabajadores y 110.1 de la Ley Reguladora de la Jurisdicción Social –tras su modificación por parte de los artículos 18.Ocho y 23.Uno de la Ley 3/2012– se encuentra penalizada en la práctica con el pago de los salarios de tramitación que ha de soportar el empresario únicamente en este caso.
Pero, además, no es baladí que esta primacía de la solución menos sensible al principio de estabilidad en el empleo no se plantea en cualquier contexto, sino en uno que desde este punto de vista resulta particularmente “odioso”: aquél en el que ha quedado acreditado que no existen razones que justifiquen la decisión extintiva del empresario.
Lógicamente lo anterior no quiere decir que no quepan en el marco constitucional soluciones legales alternativas a la readmisión en los casos de despido improcedente; ni que el cese definitivo de la relación contractual con el abono de una indemnización como medida compensatoria choque con el artículo 35.1 de la Constitución; ni, en fin, tampoco hay que olvidar que precisamente es el empresario quien, con carácter general, está facultado para elegir entre las dos opciones. Todo ello encuentra amparo en la libertad de empresa reconocida en el artículo 38 de la Constitución y que sirve para modular la aplicación del derecho al trabajo y sus implicaciones.
Ahora bien, no puede aceptarse que, ante la alternativa legal en caso de despido improcedente, la misma se regule fomentando comparativamente la extinción contractual frente a su alternativa de readmisión que propicia la supervivencia de la relación laboral. En este sentido, la dificultad estriba en que el artículo 56.2 del Estatuto de los Trabajadores [de igual modo, el artículo 110.1 Ley Reguladora de la Jurisdicción Social] plantea formalmente dos soluciones alternativas, pero en la práctica favorece aquella menos respetuosa con el principio de estabilidad derivado del derecho al trabajo del artículo 35.1 de la Constitución.
Desde luego, ello encaja mal con la preferencia por la readmisión manifestada por el artículo 10 del Convenio 158 de la OIT, según el cual“(s)i los organismos mencionados en el artículo 8 del presente Convenio llegan a la conclusión de que la terminación de la relación de trabajo es injustificada y si en virtud de la legislación y la práctica nacionales no estuvieran facultados o no consideraran posible, dadas las circunstancias, anular la terminación y eventualmente ordenar o proponer la readmisión del trabajador, tendrán la facultad de ordenar el pago de una indemnización adecuada u otra reparación que se considere apropiada”.
Pero hay algo que resulta más decisivo. Ese acreditado debilitamiento de la vocación de estabilidad en el empleo difícilmente permite concluir que la diferencia de trato derivada de las dos soluciones contempladas para los supuestos de despido improcedente responda a una justificación objetiva y razonable que, como tal, merezca el amparo del ordenamiento jurídico.
Mucho menos ante su evidente falta de proporcionalidad. Debe tenerse en cuenta, en este sentido, que los salarios de tramitación llevan aparejadas también las correspondientes cotizaciones sociales. Por eso, frente al empresario que se limita al abono de la indemnización, aquel otro que opta por la readmisión del trabajador debe soportar ex artículo 56.2 del Estatuto de los Trabajadores [y artículo 110.1 Ley Reguladora de la Jurisdicción Social] esa doble carga: los salarios de tramitación con sus cotizaciones sociales. Del mismo modo, el trabajador que no es readmitido tras un despido improcedente sufre un doble perjuicio respecto de aquel otro que sí lo es, pues no recibe ni salarios de tramitación ni cotizaciones con el consiguiente perjuicio a la hora de acceder a las prestaciones contributivas del sistema de Seguridad Social, especialmente significativas las de posible percepción más inmediata derivadas de la situación de desempleo en la que queda el trabajador despedido.
En conclusión, los artículos 56.2 del Estatuto de los Trabajadores y 110.1 de la Ley Reguladora de la Jurisdicción Social –en la redacción establecida por la Ley 3/2012–, que prevén que la obligación de abonar los salarios de tramitación del trabajador despedido de forma improcedente se circunscribe al supuesto en el que el empresario opta por la readmisión de aquél, resultan inconstitucionales por vulnerar el derecho a la igualdad ante la ley (artículo 14 de la Constitución) y el derecho al trabajo (artículo 35.1 de la Constitución).

9.- Inconstitucionalidad de la Disposición adicional Tercera por vulneración de los artículos 14, 23 y 103.3 de la Constitución, en relación con el artículo 35.1 de la Norma suprema. 

La prohibición para las Administraciones Públicas y a las entidades de derecho público vinculadas o dependientes de una o varias de ellas y de otros organismos públicos de poder proceder a efectuar reducciones de jornada y suspensiones de contratos de trabajo en base a razones económicas, técnicas, organizativas y productivas, tal como se recoge en la disposición adicional 21ª del Estatuto de los Trabajadores, conforme a lo establecido en la Ley 3/2012 (disposición adicional 3ª), vulnera el derecho a la igualdad de trato y prohibición de discriminación del artículo 14 de la Constitución, el acceso a funciones públicas conforme a criterios de mérito y capacidad de los artículos 23 y 103.3 de la Constitución, así como el derecho al trabajo reconocido por el artículo 35.1 de la Constitución.
A través de la mencionada disposición la reforma laboral introduce como novedad una prohibición completa en el ámbito de la Administración Pública y en cierto tipo de empresas del sector público de utilización de los procedimientos de reducción de jornada y de suspensión del contrato de trabajo en el marco de las necesarias regulaciones de empleo al servicio de las mencionadas entidades públicas. Se trata, tal como se recoge literalmente en la redacción de la disposición objeto de impugnación, de una prohibición absoluta, sin ningún tipo de excepción ni matices.
Esta prohibición, no sólo contradice las políticas de empleo expresamente defendidas por la reforma laboral dirigida a favorecer la flexibilidad interna frente a las medidas de flexibilidad externa, sino que por efecto deriva obliga a tales entidades públicas a reducir empleo con carácter permanente por la vía de despidos colectivos en caso de concurrencia de circunstancias de excedente de empleo por causas económicas, técnicas, organizativas o productivas de carácter coyuntural, sin permitirles como al resto de las empresas la solución menos negativa para la preservación del empleo de las reducciones de jornadas o suspensiones de contratos de trabajo; aboca a tales entidades a efectuar despidos ante escenarios de dificultad económica que podrían superarse con medidas menos graves como son las de reducción de jornada o suspensión del contrato de trabajo.
Ello provoca una tutela más débil de la estabilidad en el empleo en el personal laboral de la Administración Pública, comparativamente con el resto del personal sometido a legislación laboral, carente de justificación objetiva y proporcionada. Por ello, se incurre en un tratamiento discriminatorio prohibido por el artículo 14 de la Constitución, que no puede justificarse por las especialidades propias de las Administraciones Públicas. No puede descartarse que los mecanismos de gestión de personal en el ámbito del empleo público requieran de ciertas especialidades y, por tanto, de requisitos diversos cuando se adopten este tipo de medidas temporales de reducción de empleo, especialmente con vistas a reforzar que las mismas no se utilicen como indebido sucedáneo de reducciones de empleo que al final son permanentes; puede que haya una superior tendencia de los responsables políticos de gestión en materia de personal de estas entidades públicas a utilizar indebidamente los procedimientos temporales de reducción de jornada o suspensión de contrato de trabajo, para hacer soportar sobre el sistema público de desempleo los costes de determinadas reestructuraciones, o bien para postergar políticamente una decisión inexorable de despido al que por razones objetivas está abocada la plantilla de esa entidad pública. Sin embargo, ese tipo de prácticas (a la que tampoco son ajenas en modo alguno las empresas del sector privado, particularmente las de medianas y grandes dimensiones como las entidades públicas), pueden ser conjurada por medio del establecimiento de mecanismos limitativos, de cautela o de control. Pero, en todo caso, resulta de todo punto desproporcionado reaccionar frente a este tipo de desviaciones en los usos y prácticas de las entidades públicas con una medida tan plenamente prohibitiva, que desemboque en una diferencia de tratamiento carente de objetividad y proporcionalidad entre las entidades públicas mencionadas y el resto de las empresas sometidas a la legislación laboral, por lo que es patente la vulneración que con ello se produce del artículo 14 de la Constitución.
Más aún, carece de fundamento a efectos constitucionales el establecimiento de una diferencia de tratamiento entre las entidades públicas que se financien mayoritariamente con ingresos obtenidos como contrapartida de operaciones realizadas en el mercado (a las que el precepto de referencia les permite acudir a los procedimientos de reducción de jornada y suspensión de contratos de trabajo) y el resto de las entidades y Administraciones Públicas (a las que no se les permite hacerlo). Las razones que podrían justificar una diferencia de tratamiento entre las empresas del sector público y del privado, difícilmente se pueden conectar con el dato diferencial utilizado por la norma en atención a los criterios de financiación, por cuanto que el tipo de dificultades económicas coyunturales por las que pueden pasar unas y otras entidades públicas son idénticas y las pautas conforme a las que actúen en el ámbito de la gestión de personal muy similares. Por ello, igualmente desde esta perspectiva se aprecia ausencia de objetividad en la diferencia de trato advertida.
Por añadidura, esta diferencia de trato incide en una diversa tutela de los trabajadores que prestan servicios para unas y otras entidades o empresas, de modo que ello no sólo vuelve a provocar una diferencia de tratamiento discriminatorio contrario al artículo 14 de la Constitución entre diversos grupos de trabajadores en atención a la empresa para la que prestan servicios, sino que además ello provoca el resultado de que materialmente se afecta negativamente al derecho al trabajo reconocido por el artículo 35 de la Constitución. Recordemos que el derecho al trabajo constitucionalmente tutelado se extiende tanto al momento del acceso al empleo como al régimen de extinción del contrato de trabajo, en aras de la protección de la tutela de la estabilidad en el empleo de los trabajadores. Pues bien, en esta ocasión, al impedir que este tipo de entidades públicas adopten medidas menos traumáticas de reducción de jornada y suspensión del contrato de trabajo, se les aboca a despedir a estos trabajadores para reaccionar a una situación de dificultad económica de carácter coyuntural y por tanto lesionando de manera desproporcionada e injustificada el derecho al trabajo reconocido por el artículo 35 de la Constitución.
Contemplada la medida impugnada desde otra perspectiva, con ello también se lesiona el acceso a las funciones públicas en condiciones de igualdad y mérito, conforme a lo establecido por los artículos 23.2 y 103.3 de la Constitución. Dichos preceptos no sólo abarcan a los funcionarios, sino que también se extienden al personal laboral al servicio de las Administraciones Públicas sometidos a contrato de trabajo; y, tal como apuntamos con anterioridad, no sólo inciden sobre el momento de entrada al servicio de la Administración Pública, sino también para el momento de salida. Por ello, en similares términos a cómo se vulnera el derecho constitucional genérico al trabajo del artículo 35 de la Constitución, en este particular supuesto también se vulnera el derecho al trabajo público de los artículos 23.2 y 103.3 de la Constitución.
A mayor abundamiento, la fórmula resultante en algún caso podría provocar la adopción de medidas asimiladas, pero que son más perjudiciales para los trabajadores. Por ejemplo, no ciega la reducción de jornada por la vía del artículo 41 del Estatuto de los Trabajadores, con el efecto perverso de que el empleado público en este caso no tendría derecho a la prestación parcial por desempleo. En suma, con ello se produce respecto de los efectos un nuevo tratamiento discriminatorio entre laborales en el empleo público, comparados con los correspondientes al sector privado, ahora en relación con la protección parcial por desempleo, lo que provoca una nueva lesión del mandato contemplado en el artículo 14 de la Constitución.
Es cierto que el legislador puede contar con un amplio margen de discrecionalidad a la hora de configurar el status del personal que presta sus servicios en las Administraciones Públicas (STC 7/1984, de 25 de enero), pero no lo es menos que dicha diferenciación de trato ha de respetar los fundamentos antes referidos y evitar, como es el caso, desigualdades que “resulten artificiosas o injustificadas por no venir fundadas en criterios objetivos y razonables, según criterios o juicios de valor generalmente aceptados (STC 27/2004, de 4 de marzo).
Y es que, como vemos, la exclusión de lo previsto en el artículo 47 del Estatuto de los Trabajadores a las Administraciones Públicas y entidades de derecho público no encuentra justificación ni motivación alguna, supone, por tanto, una discriminación evidente y conculca el mandato que también vincula al legislador de un trato igual conforme lo previsto en el artículo 14 de la Constitución.
Además, tal como afirma el Tribunal Constitucional (STC 27/2004, de 4 de marzo) “también es necesario, para que sea constitucionalmente lícita la diferencia de trato, que las consecuencias jurídicas que se deriven de tal distinción sean proporcionadas a la finalidad perseguida, de suerte que se eviten resultados excesivamente gravosos o desmedidos”. Este requisito esencial para admitir la justificación de un trato desigual no se da en absoluto en la disposición adicional tercera de la Ley 3/2012. Parece que no se toma en cuenta la absoluta desproporción de la medida en relación con las consecuencias jurídicas de la misma.
No es razonable que se pretenda excluir la aplicación del artículo 47 del Estatuto de los Trabajadores para el personal laboral al servicio de las Administraciones Públicas con el resultado de forzar a adoptar medidas más gravosas como son las derivadas del despido colectivo y obviar, sin justificación alguna, medidas que en la propia lógica del legislador se pueden entender como paliativas de la anterior, afectando, por ello, a la propia estabilidad en el empleo del personal laboral al servicio de las Administraciones Públicas y, en su caso, al acceso a medidas de protección social. Y siendo precisamente esto lo que el legislador ha pretendido excluir, aunque no lo ha expresado, se trata claramente de una medida desproporcionada por suponer un resultado excesivamente gravoso para aquellos que son objeto del trato desigual, algo que, como vemos, rechaza la doctrina de nuestro Tribunal Constitucional.

En virtud de todo lo expuesto,

SUPLICO AL PLENO DEL TRIBUNAL CONSTITUCIONAL que habiendo por presentado este escrito y los que con él se acompañan, tenga por presentado, en la representación que ostento, en tiempo y forma recurso de inconstitucionalidad, mediante formulación de la pertinente demanda, contra los artículos 4. 3; 12. Uno; 14. Uno y Dos; 18. Tres; 18. Ocho; 23. Uno; Disposición adicional tercera y Disposición final cuarta. Dos de la LEY 3/2012, DE 6 DE JULIO, DE MEDIDAS URGENTES PARA LA REFORMA DEL MERCADO LABORAL, se sirva admitir a trámite la demanda en que se formaliza y, previos los trámites preceptivos en Derecho, dictar, en definitiva y con estimación del recurso, sentencia por la que se declare la inconstitucionalidad y consecuente nulidad de los preceptos mencionados.


Es justo.

Madrid, a 4 de octubre de 2012.


Abogado      Procurador
Fdo. Alvaro Sánchez Manzanares               Fdo. Virginia Aragón Segura
Col. nº 74.090