23 December 2009

HABLA EL MAESTRO UMBERTO ROMAGNOLI





Per il sindacato è una questione d’identità


Nell’Occidente capitalistico coinvolto nel processo di industrializzazione, il sindacato si è fatto carico del compito di emancipare il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose. Come poteva, il sindacato ha fatto quel che doveva, contribuendo a traghettarli dallo status di sudditi di uno Stato oligarchico e monoclasse allo status di cittadini di uno Stato democratico pluriclasse.


Tuttavia, pur avendo un passato di cui vantarsi, il sindacato non sembra avere un futuro di cui fidarsi. Il secolo da cui è uscito lo ha consegnato al nuovo in condizioni paragonabili a quelle di una icona logorata dal tempo. Per questo, il destino cui più frequentemente vanno incontro i partecipanti ad un pubblico dibattito sul ruolo del sindacato nelle società contemporanee è quello di lasciarsi con la sensazione di avere celebrato i funerali d’un caro estinto per cui non resta altro da fare che elaborare il lutto.


Una conclusione del genere è più emotiva che ragionata. Intanto, il cauto e quasi svogliato ritmo dei cambiamenti in atto nel sindacato dipende non tanto o non solo da pigrizia, ambiguità, paura delle novità, egoismo, predilezione per le micro-discontinuità – che peraltro sono una componente della cultura non dei soli rappresentanti sindacali – quanto piuttosto da una realtà contraddittoria. Una realtà dove il Novecento che crediamo di avere alle spalle interi continenti, od anche intere regioni di un medesimo paese, ce l’hanno invece davanti. Una realtà dai contorni sfuggenti dove il nuovo avanza tanto in fretta da non concedere neanche il tempo dell’adattamento. Una realtà dove, come scrive Aris Accornero, i sindacati “soffrono perché una parte crescente di lavoratori ha un po’ meno bisogno di loro, mentre un’altra parte ne ha molto più bisogno ma non riesce ad incontrarli” e, quando succede, scopre che tra i dirigente sindacali non c’è concordia di opinioni su come interpretare il bisogno di sindacato che manifestano.


In simili condizioni, la riflessione non può spingersi oltre la pacata affermazione che, oggi, il sindacato non è più quello di ieri, anche se la cosa gli dispiace moltissimo, e cionondimeno non è ancora quello di domani, anche perché l’immagine che in qualche modo si prefigura non lo persuade. La frettolosa conclusione di cui dicevo è sbagliata sul piano del metodo, perché è condizionata dalle suggestioni di un determinismo volgare e banale: la storicità della forma-sindacato più conosciuta nell’Occidente non la condanna di per sé all’esaurimento; piuttosto, apre interrogativi su come riformarla per adeguarla ai mutamenti sopravvenuti e rimotivarla.


Sospetta perciò è anche la prontezza con cui i più reazionari o (il che può essere lo stesso) i più infatuati della post-modernità sono disposti a predire la morte del sindacato. Padronissimi di seguitare a pensare del sindicato tutto ciò che di lui hanno sempre pensato, devono però rassegnarsi all’idea che il sindacalismo è come il comunismo nel pensiero del Papa polacco: un male necessario per reagire alle ingiustizie del capitalismo. Un male che non è estirpabile con facilità non solo perché l’economia di mercato è quella che è, ma anche perché, nel frattempo, il sindacato si è guadagnata un’ampia legittimazione sociale che ha ricevuto il crisma della legalità costituzionale e, almeno da noi, il trattamento premiante di una legislazione promozionale come lo Statuto dei lavoratori, ossia il più avanzato documento legislativo pro labour che un Parlamento occidentale abbia mai confezionato.


Adesso, però, questa sperimentata attitudine ha perduto smalto nella misura in cui la percezione dell’esigenza – che percorre le società più evolute – di ridisegnare nel sistema giuridico l’immagine dell’individuo con le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere, anche se protectivo e benevolo, è penetrata sì nell’organizzazione sindacale, ma furtivamente e dunque senza esercitare una significativa influenza sulla concezione che il sindacato ha memorizzato del suo ruolo di rappresentanza: una concezione granitica a sostegno di un ruolo blindato a tutela di collettività indistinte.


Il fatto è che, come osservava Massimo D’Antona, “contrariamente ad un diffuso luogo comune, i diritti di democrazia sindacale non sono riconosciuti ai lavoratori come rappresentati”. Lo stesso Statuto dei lavoratori “si preoccupa delle garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell’impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentanti di fronte al lavoratore”. I quali, infatti, preferiscono considerarlo nella sua qualità di “destinatario finale di decisioni vincolanti, assunte in suo nome e per suo conto”.


La denuncia è caduta nel vuoto. Ma la lacuna normativa, che Massimo chiamava “il non-detto” dello Statuto, non è resa più tollerabile dall’abitudine in bilico tra ideologia e apologia di dedurre dall’energia con cui il sindicato sa difendere la democrazia nel paese la certezza che, come gruppo organizzato, non può non averne interiorizzato i principi ordinanti. Adesso, questo pregiudizio favorevole si è rovesciato nel suo contrario. Paradigmatico, ancorché sottostimato o frainteso, è al riguardo un episodio accaduto in Italia sul finire del secolo scorso, quando un referendum
abrogò una norma dello Statuto nella parte in cui obbligava l’imprenditore ad agevolare la riscossione delle quote associative mediante ritenuta salariale su richiesta del dipendente iscritto al sindacato.


Vero è che l’11 giugno 1995 il legislatore popolare optò per l’abrogazione perché si era sparsa la menzogna che le trattenute sarebbero state viziate dal più arbitrario degli automatismi in quanto effettuate ope legis e dunque a prescindere dalla volontà degli interessati. Resta il fatto che, se la grossolana falsità trovò ascolto e persuase la maggioranza dell’elettorato, ciò significa che si volle punire un potere che, nell’immaginario collettivo, minacciava di trasformarsi in una tirannia e come tale era vissuto. Insomma, il legislatore popolare si pronunciò nel senso che la venerabile concezione di un sindacato la cui agiografia lo descrive incapace di peccare era tramontata.


Per questo, revocò il beneficio dell’auto-finanziamento sindacale agevolato dalla legge: svanito il pathos delle origini, il sindacato appariva come uno qualunque dei tanti gruppi intermedi di natura volontaristico-associativa rispetto ai quali lo Stato è indifferente. Eppure, il ministro socialista Giacomo Brodolini aveva preannunciato: “il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando si propone di fare del luogo di lavoro la sede Della partecipazione democratica della vita associativa sindacale e della formazione di canali democratici tra il sindacato e la base”. Viceversa, l’esito referendario autorizza a pensare che allo Statuto il miracolo non era riuscito. Né la deriva si era fermata dopo una sentenza della Corte costituzionale che, nel 1990, aveva censurato i sindacati arricchiti dalla pingue dote statutaria fatta di privilegi ed immunità che, per non rischiare di perderla preferivano l’insostenibile leggerezza di una rappresentatività soltanto presunta e perciò aveva esortato il legislatore ad imporre che essa fosse accertata in base a regole “ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacati”.


Tuttavia, anche un legislatore meno impacciato o distratto del nostro rischierebbe di fare la figura dell’allegrone colpito da ilare amnesia se pretendesse di prescrivere al sindacato istituzionalizzato del tempo presente di tornare ad essere un’associazione genuina e virtuosa. Oramai, l’esercizio di consistenti fette di potere sostanzialmente e, spesso, anche formalmente pubblico lo ha irreversibilmente trasformato in un’associazione inautentica e virtuale oscillante tra privato e pubblico, ma più sbilanciata verso il pubblico che verso il privato. Con ciò non intendo insinuare che il suo patrimonio genetico abbia subito chissà quali alterazioni. Al contrario, fin dagli inizi il sindacato manifestò, non solo in Italia, la tendenza a giustapporre alla logica volontaristico- associativa la logica istituzionale; e ciò proprio per sostenere un’ambizione sproporzionata ai mezzi di cui disponeva. L’ambizione era quella di proporsi come titolare di un interesse collettivo il cui soddisfacimento esigeva regole uniformi in aree (geografiche, merceologiche, professionali) di variabile estensione e in ogni caso eccedenti la cerchia degli associati. Dell’istanza, che preesisteva al fascismo, il fascismo si appropriò a modo suo e – per impedire che il crollo del regime la mortificasse – intere generazioni di operatori giuridici ne hanno fatte di tutti i colori. Perché buttare via l’acqua sporca col bambino dentro?


La medesima riluttanza è ancora vivissima all’epoca della Costituente. Infatti, l’inattuato quarto comma dell’art. 39 del testo costituzionale reproduce un’immagine di sindacato che sembra estratta dall’album di famiglia. Come ha scritto Vittorio Foa, essa contiene l’identikit di un “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato e, nello stesso tempo, soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato”. Cosa significa? Significa che i padri costituenti volevano la luna? No, più semplicemente significa che la transizione dalla rappresentanza sindacale di tipo politico-istituzionale e dunque di diritto pubblico – acquistata a prezzi proibitivi in età corporativa – alla rappresentanza di tipo privatistico-associativo ossia particolaristica e dunque di diritto comune – privilegiata nell’età successiva – sarebbe rimasta incompiuta. Anche lo Statuto dei lavoratori ne sancirà l’incompiutezza nell’ampia misura in cui scolorisce il principio associativo di matrice privatistica che presiede ai rapporti tra sindacato ed iscritti. In seguito alla crescente opacità di tale principio – su cui Mario Rusciano fu tra i primi a richiamare criticamente l’attenzione dei giuristi del lavoro – la rappresentanza sindacale si è definitivamente congedata dal modello della rappresentanza volontaria di cui discorrono i manuali di diritto privato, diventando una sottospecie della rappresentanza politica di cui discorrono i manuali di diritto costituzionale.


Per questo, bisogna smettere di denunciare con toni scandalistici l’avvenuta metabolizzazione dell’ibridismo. È senz’altro più corretto parlarne senza falsi pudori come di una contraddizione irrisolta che procura risorse. Infatti, i sessant’anni trascorsi dall’art. 39 Cost. aspettando Godot dovrebbero essere archiviati con una formula ossimorica. È stata infatti una necessità storica che il sindacato rifiutasse una legge organica capace di definirne modo d’essere e ambiti di azione, perché il nostro era un movimento sindacale con enormi ritardi da recuperare quanto ad esperienza di libertà e autonomia e perciò, sprovvisto com’era degli anticorpi necessari per impedire allo Stato di colonizzarlo, meritava la chance di farsi le ossa senza intempestive interferenze. Nondimeno, si trattava di una inutile necessità.


Infatti, la bipolarità del sindacato ha trovato spazio e sviluppo nella costituzione materiale malgrado l’inattuazione del progetto di ordinamento sindacale disegnato dai padri costituenti. Il che vuol dire che la bipolarità preesisteva: il sindacato se la portava dentro e l’ha custodita tra le pieghe di un’esperienza ostentatamente privatistica. Ciò non toglie che, di fronte alla colossale crescita della componente istituzionale del sindacato dietro gli immutati scenari normativi dei gruppi d’interesse privati che rispondono soltanto ai loro membri, è un’esagerazione seguitare a qualificare come manifestazione della libertà sindacale costituzionalmente protetta l’allergia del sindacato a regole che rendano compatibile coi fondamenti delle democrazie rappresentative la più explosiva delle sue performance: quella che gli permette di sommare ai vantaggi di cui gode come “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato” i vantaggi di cui si appropria come “soggetto di una funzione pubblica”.


Anzi, il processo di rilegittimazione di un soggetto storico che dà segni di affaticamento comincia proprio da qui, da questa presa d’atto. Come dire: visto che il tempo è stato galantuomo, è arrivato il momento di rendergli giustizia stabilendo “le regole sulla legittimazione della rappresentanza, sulle garanzie dei rappresentati e sul pluralismo che lo Statuto ritenne di non dover scrivere”, mentre – come intuiva Massimo D’Antona – esse sono indispensabili per ridefinire la frontiera del diritto sindacale possibile nel secolo in cui siamo entrati. Dopotutto, il modo d’essere e d’agire del sindicato interessa allo Stato almeno quanto il modo d’essere e d’agire dello Stato interessa al sindacato e soltanto il suo ripensamento permette alle collettività rappresentate di trovare nel sindacato un interlocutore al passo coi tempi.



En:
http://www.lex.unict.it/eurolabor/news/dlm/1-2009/editoriale.pdf