Riccardo Terzi, Segretario nazionale Spi-Cgil
La ricerca che viene qui
presentata e discussa nasce da una precisa e urgente domanda politica: come rispondere alla crisi della democrazia.
Io cercherò, con questa introduzione, di entrare direttamente nel vivo di
questo nodo politico, non per forzare il senso e la portata del lavoro di
ricerca, ma per metterlo alla prova, per verificarlo, per esplorare le potenzialità
che esso ci può dischiudere.
Il lavoro che abbiamo
svolto, con l’Ires Toscana e con
l’Università di Firenze, è stato pensato, fin dall’inizio, come l’occasione
per riaprire tutta la discussione sul futuro della nostra democrazia. E abbiamo
scelto come campo di ricerca la
Toscana , perché qui vediamo le tracce non ancora spente di
una forte vitalità democratica, e perché soprattutto si è tentata una nuova
sperimentazione legislativa, a sostegno di una democrazia partecipata, che sia
capace di ricostruire una relazione feconda tra cittadini e istituzioni. Sta
esattamente qui il punto in cui si sta consumando la crisi del nostro sistema
politico, con tutti gli esiti traumatici che ne possono conseguire. La Toscana non è certo
un’isola felice, e si trova anch’essa nel mezzo di una crisi globale che
trascende le responsabilità dei poteri locali. Ma non è senza rilievo il fatto
di cogliere la drammaticità di questa crisi e di cercare nuove possibili
soluzioni.
Che di crisi si tratta,
profonda e pervasiva, non c’è ormai quasi nessuno che lo possa negare. I dati
di fatto sono di una evidenza assoluta: la
crescita impetuosa dell’astensionismo elettorale, il discredito dei partiti,
l’esplosione violenta dell’anti-politica, la lunga trafila degli episodi di corruzione,
l’immagine ormai imperante di una “casta”, chiusa nella difesa arrogante dei
suoi privilegi. C’è una vera e propria precipitazione della crisi, e non
regge più l’idea che si tratti solo di episodi isolati, di responsabilità
singole, essendo chiaro che è l’intero
sistema politico – istituzionale ad essere messo in discussione. Per
questo, dobbiamo evitare, io credo, di mettere in un unico sacco le diverse
manifestazioni di protesta e di contestazione, bollandole con il marchio
dell’antipolitica e del populismo. Non bisogna confondere le cause con gli
effetti, e quello che si chiama genericamente “anti-politica” è sì un segno
allarmante, l’indizio di una mutazione dello spirito pubblico che può provocare
esiti del tutto distruttivi, ma tutto ciò non è che il riflesso di una
situazione non più sostenibile.
Se ci limitiamo a dire anti-politica, diamo per scontata l’esistenza di
un campo politico, perfettibile, come sempre, ma reale e funzionante, mentre è
proprio questo presupposto che si sta dissolvendo. Sta nella politica stessa il
cuore della crisi, nei suoi meccanismi, nel grande vuoto che essa ha prodotto,
vuoto di idee, di progetti, di visione del futuro. È
questa la tendenza generale, ormai da molti anni, il che non esclude
l’esistenza di sforzi generosi per uscire da questo pantano. Ma resta il fatto
che è il pantano ad aver vinto.
Per questo possiamo
dire, analizzando freddamente i dati della realtà, che siamo entrati in una fase di crisi acuta del sistema. Il
problema che è aperto, per tutti, con una urgenza assoluta, è quello di
rendere visibile una nuova prospettiva. Di questo vorremmo parlare. Mentre la
“pars destruens”, la denuncia di tutto ciò che non funziona, è un esercizio
anche troppo facile, e c’è in proposito un’infinita produzione giornalistica,
restano invece ancora nell’ombra i
progetti di ricostruzione, le idee positive a cui affidare il nostro
futuro.
Si apre qui un grande
spartiacque, che ha al centro proprio il tema della democrazia: se la via di uscita dalla crisi richieda una
qualche limitazione del metodo democratico, un tenere sotto controllo i suoi
effetti di turbolenza e di instabilità, o se all’inverso l’operazione da
compiere sia quella di una espansione coerente della democrazia, di un
allargamento del suo campo di azione. Questa mi sembra essere l’alternativa
decisiva che ci sta di fronte. Il vero scontro non è tra politica e
anti-politica, ma tra sviluppo o limitazione della democrazia, tra la
democrazia come risorsa o come impaccio.
Per cogliere l’esatta
portata di questa dinamica, occorre scavare nella profondità dei processi
reali, oltre la superficie, oltre le retoriche ufficiali, oltre l’immagine di
una democrazia ormai vincente e dispiegata. L’attacco alla democrazia viene condotto per vie traverse, indirette, con
un’azione molecolare che non agisce sui principi, ma sui meccanismi concreti,
sui criteri di efficienza, sugli equilibri istituzionali. Il metro di
misura con cui valutare tutto ciò mi sembra essere abbastanza semplice, in
quanto si tratta di verificare il grado di approssimazione a quello che è il
cuore dell’idea democratica: il diritto di tutti, senza esclusioni, a
partecipare alla decisione politica, e l’estensione illimitata di questo metodo
a tutti campi, senza aree protette, senza territori riservati solo agli addetti
ai lavori. Tutti e tutto: la democrazia non è altro che questo processo di
universalizzazione.
Se usiamo questo metro,
che è l’unico davvero conforme all’idea democratica, allora risultano del
tutto evidenti le strozzature, le limitazioni, e anche gli arretramenti che in
questi anni si sono prodotti. Sono all’opera diverse forze che puntano a tenere
la democrazia sotto tutela, a circoscriverne il campo d’azione, in nome di una
qualche autorità superiore, in nome di valori e di principi che non sono
negoziabili. Potremmo in questo caso usare l’espressione abusata dei “poteri
forti”, proprio perché si tratta di poteri che non ammettono di poter essere
messi in discussione dal processo democratico.
È nota la tesi per cui
la democrazia, essendo per sua natura relativista, non può trovare in se stessa
il suo fondamento, ed ha quindi bisogno di un’autorità esterna. Ed è questa
tesi, dichiarata o sottintesa, che anima tutte le correnti conservatrici.
Questo processo di restaurazione si snoda lungo tre diverse traiettorie, che
tendono spesso a confluire, ad integrarsi l’una nell’altra.
C’è anzitutto la potenza
ideologica delle religioni, che tendono ad affermarsi come l’unico possibile
fondamento della comunità, come il deposito delle risorse morali che la tengono
al riparo dalla disgregazione. La religione accetta la democrazia solo come un
prodotto secondario, subordinato, mentre c’è un complesso di verità e di valori
che non possono essere messi in discussione. Che si tratti del cristianesimo o
dell’Islam, non ci sono, sotto questo profilo, molte differenze, se non di
maggiore o minore flessibilità. Parlo qui dell’istituzione e non del sentimento
religioso, che agisce spesso come una forza animatrice dei movimenti
democratici. Si tratta di un’antica questione, mai del tutto risolta, ma che ha
saputo trovare, in alcuni passaggi della nostra storia, un equilibrio
accettabile, tenendo i due piani, quello religioso e quello politico, in un
rapporto di distinzione e di reciproca autonomia. E tuttavia è evidente il
riemergere aggressivo di movimenti integralisti, anche nel cuore dell’Europa.
Più rilevante e
più attuale è il secondo movimento, il quale consiste nell’idea e nella
pratica tecnocratica, in nome di una presunta oggettività delle leggi economiche,
per cui c’è un’unica soluzione, un'unica agenda possibile, e la democrazia si
deve totalmente arrendere di fronte a questa necessità. Se Platone pensava ai
filosofi, ai sapienti, ora è il momento dei tecnici, degli esperti, degli
interpreti autorizzati del pensiero economico dominante.
È qui evidente come la
democrazia venga radicalmente depotenziata, perché la dialettica politica è
consentita solo all’interno di un perimetro rigidamente circoscritto, e se si
azzarda a valicarlo, allora scatta l’intervento sanzionatorio delle superiori
autorità economiche, a cui è stato delegato tutto il potere di regolazione. Insomma, c’è ormai una totale divaricazione
tra le sedi della rappresentanza e le sedi del potere. Alla prima è
lasciato solo il gioco del conflitto mediatico, dell’apparenza,
dell’intrattenimento, delle parole dette in libertà, mentre i veri centri di
potere stanno ormai altrove, fuori dal circuito democratico, e quindi
irresponsabili, in quanto non devono rispondere che a se stessi e alla pressione
dei mercati.
È assai indicativo il
modo in cui, in un variegato arco di forze politiche, si pone il tema della
cosiddetta “agenda Monti”, non come una delle possibili opzioni, ma come
l’unica ancora di salvezza per l’Italia, come una scelta obbligata, imposta da
una superiore necessità. Ciò vuol dire, per tutti coloro che sostengono questa
tesi, che le prossime elezioni sono solo un rito superfluo, perché il nostro
futuro è già scritto, e non ci sono alternative, non ci sono margini di
scostamento da quell’unica necessaria traiettoria. Le domande sull’efficacia di
questa politica e sulla sua equità, il dubbio che Monti non rappresenti la
soluzione, ma piuttosto l’avvitamento della crisi in una spirale recessiva,
tutto ciò viene escluso a priori, come l’intromissione degli eretici nel sacro
recinto dell’ortodossia liberista. Nel momento in cui ogni alternativa viene
esclusa, e tutto il discorso politico sembra parlare lo stesso linguaggio, è la
democrazia che deperisce, perché essa ha bisogno di chiare alternative
programmatiche. Se la sinistra si lascia ingabbiare in questa trappola, non può
che finire nel repertorio degli enti inutili.
La terza tendenza è quella plebiscitaria,
che si affida alla figura carismatica del leader, nel quale si condensa
lo spirito della nazione. Nella crisi delle culture politiche tradizionali, da
più parti si è puntato su questo modello, sulla personalizzazione, su una
competizione giocata tutta non sulle idee, ma sulla delega fiduciaria ad un
capo, che diviene così il regolatore esclusivo di tutta la vita politica e
istituzionale. Della democrazia sopravvive solo la parvenza, ma è chiaro che il
risultato è una forma di potere arbitrario e autoritario. Se guardiamo bene,
questa non è stata, nella nostra storia politica recente, un’eccezione, ma una
tendenza generale, perché tutta l’infinita discussione sulle riforme
istituzionali è stata guidata esclusivamente dall’assillo della governabilità,
del rafforzamento della figura del premier e dei suoi poteri, dall’idea, in
fondo, che il male dell’Italia stia in un eccesso di democrazia, e che sul
piatto della bilancia debba finalmente prevalere il peso del principio di
autorità.
Su tutti questi fronti
la democrazia è messa in discussione. E queste diverse traiettorie tendono
spesso ad incrociarsi, con una commistione di integralismo religioso, di
dominio tecnocratico, e di populismo plebiscitario, dando vita così’ ad un
fortissimo blocco di potere. Ora, questo blocco si sta sfaldando, per le sue
interne contraddizioni e per l’esplosione di una acutissima questione morale. E
quindi si possono aprire oggi nuovi varchi, si possono preparare nuove
prospettive. Ma ciò richiede una sterzata molto netta e decisa rispetto alle
tendenze fin qui prevalenti. Richiede un programma coerente e radicale di
democratizzazione del sistema.
Democratizzazione
è la parola giusta, perché essa indica che la democrazia è un
processo, ed è un combattimento, è il lavoro incessante e mai concluso con il
quale tutte le strutture di potere, in tutti i campi, e in qualsiasi regime
politico, vengono sottoposte ad un severo vaglio critico, attivando tutti i
possibili meccanismi di controllo, di partecipazione dal basso, di
socializzazione delle decisioni. È questo un lavoro immenso, proprio perché,
come già si è chiarito, le sedi della decisone si sono spostate e si sono
automatizzate, dando vita a ristrettissime cerchie oligarchiche. E la
globalizzazione, lasciata a se stessa, agisce come un fortissimo impulso verso
una definitiva destrutturazione dei sistemi democratici.
Nella nostra storia
politica passata, sono stati essenzialmente i grandi partiti di massa l’anello
di congiunzione tra società civile e istituzioni, il canale in cui prende forma
e si organizza la partecipazione democratica. Oggi non è più così, perché tutto
il sistema dei partiti ha subito un’involuzione, e appare non come uno
strumento al servizio dei cittadini, ma come una barriera, come una struttura
chiusa, ripiegata su se stessa. Tralascio
qui il tema, cruciale e assai arduo, di come si possa riqualificare e riformare
il ruolo dei partiti politici. Ma è comunque chiaro che essi non possono
più pretendere di essere l’esclusivo canale della partecipazione, e che la democrazia può oggi vivere solo se
c’è una pluralità di soggetti, di momenti associativi, di strumenti, di sedi di
confronto, senza che nessuno possa arrogarsi una sorta di monopolio della
rappresentanza.
Ecco che allora si apre
il campo vastissimo, e ancora largamente inesplorato, di una nuova democrazia
partecipativa, che offra a tutti, cittadini singoli o associati, una
possibilità concreta ed effettiva di accedere, secondo determinate procedure,
al processo decisionale. La legge regionale della Toscana, è, in questa
direzione, un passo importante. E noi chiediamo al governo regionale di
procedere con coraggio e con coerenza lungo la linea che è stata intrapresa,
così da costruire un nuovo modello di governo che possa essere un punto di
riferimento per tutto il paese.
Il grande tema, da
inscrivere dentro un processo di democratizzazione, è l’uso del territorio, le
grandi scelte di pianificazione e di infrastrutturazione, oggi affidate troppo
spesso ad una oscura trattativa tra poteri politici ed economici, e questa
mancanza di trasparenza e di pubblicità apre il varco ai numerosi episodi di
corruzione. È possibile democratizzare solo se c’è, contestualmente, un lavoro
sistematico di informazione, di documentazione, per consegnare il potere di
scelta a cittadini consapevoli, e per evitare di restare prigionieri di ondate
emotive, localistiche, protestatarie, come è spesso accaduto. Per questo serve
una procedura istituzionalizzata, servono regole, serve una democrazia
organizzata, e non lasciata alla spontaneità. Come dice A. Sen, la scelta
giusta è solo il punto di arrivo di un processo in cui tutti i diversi punti di
vista sono riconosciuti e legittimati, a condizione di accettare il libero
confronto e di essere aperti alle possibili mediazioni. In questo senso, la
democrazia è il metodo che consente una decisione ragionata e ponderata.
Questo sviluppo di una
democrazia partecipata, aperta a tutti i cittadini e a tutti i soggetti
organizzati, pone anche al sindacato la necessità di un riposizionamento,
perché non basta affermare il nostro ruolo negoziale, ma occorre promuovere un
sistema allargato e plurale di partecipazione. Il sindacato è un soggetto
rappresentativo di primaria importanza, e la sua “confederalità”, il suo essere
sindacato generale, è una garanzia contro il rischio sempre incombente delle
chiusure corporative. Ma, il sindacato è solo uno dei soggetti, che entra in un
processo democratico più complesso, confrontandosi con altri attori, sociali e
istituzionali. Questo, in fondo, è il senso del principio di sussidiarietà
introdotto nella nostra Costituzione: l’interesse pubblico non è solo nelle
mani dello Stato, ma c’è uno spazio per la libera iniziativa dei soggetti
sociali. E il sindacato, in questo quadro, può allargare il suo campo di
intervento e divenire un protagonista attivo, esercitando in modo del tutto
trasparente la sua funzione di rappresentanza.
C’è un ultimo punto,
quello più ostico, a cui non possiamo sfuggire. Quando parliamo di democratizzazione, in che misura riusciamo a
coinvolgere in questo processo anche la sfera dell’economia e il sistema delle
imprese? È solo il territorio il luogo possibile della partecipazione, e
l’impresa non può che essere governata da un potere unilaterale, discrezionale,
autoritario? La tendenza, come è’ noto, è verso un irrigidimento del sistema di
impresa, verso una progressiva riduzione degli spazi di autonomia per i
lavoratori, e verso un generale ridimensionamento dei loro diritti. Ma tutto
ciò non è entrato nell’agenda politica. C’è solo il sindacato, e spesso solo la Cgil , a porsi il problema. Ma fin dove regge una democrazia partecipata,
se viene escluso il momento del lavoro, che continua ad essere il luogo
fondamentale dell’identità delle persone?
Impresa e territorio
vanno visti insieme, nella loro relazione. E la battaglia per la
democratizzazione non può agire a senso unico, ma deve investire tutta intera
l’esperienza e la vita delle persone. Altrimenti, si approfondisce il senso di
estraneità e di abbandono che attraversa gran parte del mondo del lavoro,
lasciato a se stesso, senza visibilità politica, senza che nessuno si misuri
con le nuove condizioni di sfruttamento e di alienazione. La nostra idea è che
i diritti civili e i diritti sociali devono essere parte di un unico disegno, e
che non c’è nessun avanzamento significativo se non sappiamo unificare questi
due piani. Questo è oggi il nostro maggiore punto di fragilità.
Io mi limito, in questa sede, a indicare la necessità di questo
lavoro di ricostruzione di una visione democratica unitaria, che lega insieme
cittadinanza e lavoro, impresa e territorio, economia e politica.
Su questo nodo continueremo a lavorare, mettendo insieme le competenze, le
esperienze, in una visione unitaria e confederale dei compiti del sindacato. La
ricerca, dunque, è per noi l’inizio di un impegno, e questo convegno, con il
contributo autorevole delle persone che prenderanno la parola, ci può dare
un’idea più chiara e consapevole del cammino da percorrere, per una democrazia
che torni ad avere un significato nella vita concreta delle persone.
Firenze, 12 ottobre 2012